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Mark Twain

Wilson lo svitato

 

a cura di

Patrizio Sanasi

 

UNA PAROLINA CONFIDENZIALE AL LETTORE

Chi è ignorante di faccende legali può sempre commettere errori quando tenta di fotografare con la penna una

scena di tribunale; per questo non ero disposto a mandare alle stampe i capitoli «legali» di questo libro, senza prima

sottoporli a una revisione e correzione severa ed esauriente da parte di un avvocato con tutti i crismi, se è così che si

dice. Questi capitoli adesso sono a posto nei minimi dettagli, perché sono stati riscritti sotto la diretta sorveglianza di

William Hicks che ha studiato legge nel sudovest del Missouri, trentacinque anni fa, e poi è venuto qui a Firenze per

motivi di salute e tuttora, per fare un po' d'esercizio e in cambio di vitto e alloggio, dà una mano nel ristoro per

quadrupedi di Macaroni Vermicelli, che si trova nel vicolo non appena volti l'angolo da piazza del Duomo subito dietro

la casa nel cui muro è incastrata la pietra dove Dante era solito sedersi seicento anni fa, quando fingeva di osservare la

costruzione del campanile di Giotto e invece poi si stufava non appena passava di lì Beatrice che andava a comprarsi

una fetta di castagnaccio per difendersi nel caso ci fosse una rivolta ghibellina prima che arrivasse a scuola.

L'acquistava alla stessa vecchia bancarella dove anche oggi si vende lo stesso antico dolce che è leggero e buono

proprio come allora, e questo non lo dico per complimento, anzi. Hicks era un po' arrugginito in fatto di legge, ma si

aggiornò per l'occasione, quindi quei due o tre capitoli «legali» adesso sono aggiustati ed esatti. Me l'ha detto lui stesso.

Steso di mia mano il secondo giorno del gennaio 1893 a Villa Viviani, villaggio di Settignano, a tre miglia da

Firenze, in collina - un posto che ti offre il panorama più incantevole che si possa trovare su questo pianeta, e insieme il

tramonto più incantevole e fiabesco che si possa trovare in qualsiasi pianeta o sistema solare che sia - e steso, per

giunta, nel salone principale, coi busti dei senatori Cerretani e altri celebri personaggi della stessa casata che mi

guardano con approvazione, così come guardavano con approvazione Dante, chiedendomi senza parlare di adottarli

nella mia famiglia, il che io faccio con gioia perché anche i miei più remoti antenati son solo dei pollastrelli in

confronto a queste antichità togate e maestose, e sarà una grande soddisfazione e un gran lustro per me fare ciò che i

seicento anni desiderano.

Mark Twain

I

Non c'é persolialità, per quanto schietta e rispettabile, che non possa essere schiacciata dal ridicolo, anche se insipido e

a buon mercato. Prendete l'asino, per esempio: ha un carattere perfetto e fra tutti gli animali più umili ha l'animo più

nobile; eppure guardate come l'ha ridotto il ridicolo. Invece di sentirci onorati quando ci danno dell'asino, restiamo

perplessi.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Dì la verità o la bleffa - ma prendi il piatto.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

La scena di questa cronaca è la cittadina di Dawson's Landing, sulla sponda del Mississippi dal lato del

Missouri, a mezza giornata di viaggio, in vaporetto, a sud di St. Louis.

Nel 1830 era un piccolo agglomerato compatto di modeste case di legno a uno o due piani, con le facciate a

calce seminascoste da un groviglio dl rose rampicanti, di caprifogli e di campanule. Davanti a ogni casa c'era un

giardinetto recintato da una staccionata bianca e riccamente fiorito di malvarose, calendole e altri fiori che usavano

allora, e sui davanzali si allineavano cassette di legno e vasi di terracotta, dove cresceva una varietà di geranio dal

colore rosso intenso che accendeva come una vampata sulle facciate rivestite di rose. Quando sul davanzale, oltre ai

vasi e alle cassette, c'era spazio per il gatto, il gatto era lì, nelle giornate di sole, sdraiato in tutta la sua lunghezza,

sonnolento e beato, col pancino peloso al sole e una zampa arricciata intorno al naso. Allora la casa era completa, e la

sua pienezza e la sua pace erano rese note al mondo da questo simbolo, la cui testimonianza è infallibile. Una casa senza

il gatto - un gatto ben pasciuto, ben trattato e debitamente riverito - potrà anche essere una casa perfetta, ma come può

dimostrarlo?

Lungo le strade, dai due lati, al limite esterno dei marciapiedi di pietra, si allineavano i rarrubi con i tronchi

protetti da un'incassatura di legno, e offrivano ombra d'estate e una dolce fragranza a primavera, quando sbocciavano i

primi grappoli di germogli. La strada principale, che correva parallela al fiume, da cui lo separava un isolato, era la sola

dove prosperasse il commercio. Si componeva di sei isolati, e in ciascuno di questi isolati, due o tre empori, edifici di

tre piani, in mattoni, torreggiavano su un intrico di bottegucce in baracche di legno. Le insegne oscillanti cigolavano al

vento per tutta la lunghezza della strada. Il palo a strisce che a Venezia, lungo i canali bordati di palazzi, sta a indicare

una nobiltà orgogliosa e antica, nella strada principale di Dawson's Landing contrassegnava semplicemente la bottega

del barbiere. All'angolo più importante della strada c'era un palo alto, addobbato da cima a fondo con pentole, padelle e

ciotole di metallo, rumorosa insegna con cui, quando soffiava il vento, il lattoniere annunciava al mondo intero che lì a

quell'angolo il negozio era a disposizione della rispettabile clientela..3

La fronte della cittadina era lambita dalle limpide acque del grande fiume; dietro il corpo centrale si estendeva

verso l'interno per un lieve pendio, e la parte più arretrata si sfrangiava, sparpagliando le case qua e là ai piedi delle

colline; le colline salivano alte a racchiudere l'abitato in una curva a mezzaluna, ammantate di foreste dalle falde alle

vette.

I battelli andavano avanti e indietro ogni ora o giù di lì. Quelli delle piccole linee di Cairo e di Memphis si

fermavano sempre; i grandi vapori di Orleans si fermavano solo a richiesta, oppure per sbarcare passeggeri e merci. E lo

stesso valeva per la grande flotta dei battelli «in transito». Questi ultimi provenivano da una dozzina di fiumi diversi -

l'Illinois, il Missouri, l'Alto Mississippi, l'Ohio, il Monongahela, il Tennesse, il Red River, il White River, e così via; e

viaggiavano in tutte le direzioni ed erano carichi di tutti gli articoli possibili e immaginabili, voluttuari e di prima

necessità, che potevano rispondere alle esigenze delle varie comunità del Mississippi, dalle gelide cascate di St.

Anthony, attraverso nove climi diversi, fino alla torrida New Orleans.

Dawson's Landing era una cittadina schiavista, su cui gravitava una campagna dove gli schiavi coltivavano

grano e allevavano maiali. La cittadina era sonnolenta, agiata e soddisfatta. Aveva una cinquantina d'anni e cresceva

lentamente - molto lentamente anzi - ma cresceva.

Il cittadino più importante era York Leicester Driscoll, sulla quarantina, giudice del tribunale della contea.

Fiero della sua ascendenza virginiana, manteneva vive le tradizioni del proprio casato sia nell'ospitalità che nei modi

piuttosto formali e solenni. Era una persona nobile, giusta e generosa. Essere un gentiluomo - un gentiluomo senza

macchia né difetto - era la sua unica religione, a cui rimase sempre fedele. Era rispettato, stimato e amato da tutta la

comunità. Di condizione agiata, continuava ad aumentare sistematicamente il proprio capitale. Lui e sua moglie erano

quasi felici, ma non interamente perché non avevano figli. Il desiderio di un figlio loro si era andato facendo sempre più

forte col passare degli anni, ma quella benedizione non arrivava, né sarebbe arrivata mai.

Insieme alla coppia viveva la sorella del giudice, la signora Rachel Pratt, una vedova anche lei senza figli:

senza figli e perciò afflitta e inconsolabile. Le donne erano buone e semplici, facevano il loro dovere, e ne ricavavano la

ricompensa di una coscienza pulita e dell'approvazione della comunità. Erano presbiteriane, mentre il giudice era un

libero pensatore.

Pembroke Howard, avvocato e scapolo, sulla quarantina, era un altro illustre discendente delle prime famiglie

della vecchia Virginia. Era un bell'uomo, coraggioso e imponente, un gentiluomo secondo tutte le regole della Virginia,

presbiteriano devoto, un'autorità in fatto di «codici» e sempre cortesemente disposto, se una qualche sua azione o parola

vi fosse parsa dubbia o sospetta, a scendere sul terreno e a chiarirvela lasciando a voi la scelta dell'arma: dal punteruolo

all'artiglieria. Godeva di grande popolarità, ed era il più caro amico del giudice.

Poi c'era il colonnello Cecil Burleigh Essex, un altro grosso calibro, anche lui oriundo della Virginia;

comunque, con lui non avremo nulla a che fare.

Percy Northumberland Driscoll, fratello del giudice e di cinque anni più giovane, era sposato e aveva avuto

figli intorno al proprio focolare; ma uno ad uno erano stati aggrediti dagli orecchioni, dalla difterite e dalla scarlattina,

cosa che aveva dato modo al dottore di applicare efficacemente i propri infallibili metodi antidiluviani; e così le culle

erano vuote. Era un uomo ricco, aveva il bernoccolo delle speculazioni, e il suo patrimonio aumentava. Il 1° febbraio

1830 nacquero in casa sua due maschietti, il suo e quello di una delle sue schiave, di nome Roxana. Roxana aveva

vent'anni. Il giorno stesso era già in piedi, indaffaratissima, perché doveva occuparsi di tutti e due i neonati.

La signora Percy Driscoll morì nel giro di una settimana. Roxy restò con due bambini da accudire. Con loro

aveva carta bianca, perché il signor Driscoll presto s'immerse nelle speculazioni e l'abbandonò alle sue incombenze.

In quello stesso mese di febbraio Dawson's Landing si arricchì di un nuovo cittadino. Costui era il signor

David Wilson, un giovanotto di origine scozzese. Aveva vagato fino a questa remota regione dal suo luogo di nascita,

nell'interno dello stato di New York, in cerca di fortuna. Aveva venticinque anni, una laurea, e due anni prima aveva

terminato un corso di specializzazione in legge in un'università dell'Est.

Era un tipo bruttino, lentigginoso, biondiccio, nei cui intelligenti occhi azzurri, dallo sguardo franco e cordiale,

si accendeva a tratti un guizzo malizioso. Se non fosse stato per una frase poco felice, avrebbe immediatamente

percorso una brillante carriera, a Dawson's Landing. Ma disse la frase fatale il primo giorno che ci arrivò, e questa lo

«bollò». Aveva appena fatto la conoscenza di un gruppo di cittadini, quando un cane invisibile cominciò ad abbaiare,

guaire, ululare, e a rendersi manifestamente molesto, per cui il giovane Wilson disse, come pensando ad alta voce:

«Vorrei possedere la metà di quel cane.»

«Perché?» chiese qualcuno.

«Perché ammazzerei la mia metà.»

Gli uomini lo scrutarono in viso con curiosità, perfino con ansia, senza trovare nessun barlume, nessuna

espressione che riuscissero a interpretare. Si allontanarono da lui come da qualcosa di soprannaturale e si ritirarono in

privato a discutere. Uno disse: «Pare un matto.»

«Pare?» disse un altro. «Secondo me faresti meglio adire è.»

«Dice che vorrebbe possedere mezzo cane, l'idiota,» disse un terzo. «Che cosa pensa che accadrebbe all'altra

metà, se lui ammazzasse la sua metà? Secondo voi, pensa che vivrebbe?»

«Mah, deve averlo pensato, a meno che non sia il più completo imbecille della terra; perché se non lo avesse

pensato, avrebbe voluto possedere il cane intero sapendo che se ammazzava la propria metà e l'altra metà moriva,

sarebbe stato responsabile di quella metà esattamente allo stesso modo che se avesse ucciso quella metà invece della

propria. Non pare così anche a voi?».4

«Sì. Se possedesse una metà qualunque del cane, sarebbe così. Se possedesse un'estremità del cane e un'altra

persona possedesse l'altra, sarebbe pure lo stesso; specialmente nel primo caso, perché se uno ammazza una metà

qualunque di un cane non c'è nessuno che possa dire di chi sia quella metà, ma se possiede un'estremità del cane forse

potrebbe uccidere la sua estremità e...»

«No, non potrebbe farlo; non potrebbe farlo senza assumersi la responsabilità se l'altra metà morisse, e

morrebbe. Secondo me quell'uomo è malato di mente.»

«Secondo me non ce l'ha neppure una mente.»

Il numero 3 disse: «Beh, ad ogni modo è un lunatico.»

«Ecco quello che è,» disse il numero 4: «E un cretino, un puro e semplice cretino, se mai ce n'è stato uno.»

«Sissignore, per me è un maledetto idiota,» disse il numero 5. «Non è detto che tutti la debbano pensare come

me, ma questo è il mio parere.»

«Sono d'accordo con voi, signori,» disse il numero

6. «Un perfetto asino, sì; e non sarebbe eccessivo dire che è uno svitato. Se lui non è uno svitato, io non sono

un buon giudice.»

Il signor Wilson raccolse così il suffragio popolare. L'incidente fu raccontato in giro per tutta la città, e tutti ne

discussero con gravità. Di lì a una settimana aveva perso il nome di battesimo, sostituito con quello di Svitato. Col

tempo riuscì a farsi benvolere, e anche molto; ma ormai il soprannome gli si era incollato addosso e lì stava. Il verdetto

di quel primo giorno aveva stabilito che era uno sciocco, ed egli non riuscì a farlo dimenticare e neppure modificare.

Ben presto il soprannome cessò di essere l'espressione di sentimenti offensivi e ostili, ma gli rimase e continuò a

rimanergli per venti lunghi anni.

II

Adamo era semplicemente un essere umano, e questo spiega tutto. Non voleva la mela per amore della mela. La voleva

soltanto perché era proibita. Lo sbaglio fu di non proibirgli il serpente; perché allora avrebbe mangiato il serpente.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Wilson lo Svitato era arrivato con un po' di soldi, e si comprò una casetta all'estremità occidentale della

cittadina. Fra questa casetta e quella del giudice Driscoll c'era soltanto, uno spiazzo erboso, con in mezzo una

staccionata che divideva le due proprietà. Affittò un piccolo ufficio al centro della città e appese di fuori una targa con

questa scritta:

DAVID WILSON

Avvocato e consulente legale

Stime, cessioni ecc.

Ma la frase letale gli aveva rovinato la piazza, per lo meno in campo giuridico. Non venne nessun cliente.

Dopo un po' tolse la targa e la mise davanti a casa, cancellandovi tutte le qualifiche legali. Offrì i propri servigi come

agrimensore e contabile. Di tanto in tanto gli affidavano qualche rilievo topografico, e alcuni commercianti gli facevano

sistemare i libri mastri. Con pazienza tipicamente scozzese decise di sfatare la cattiva fama e di tornare a farsi strada nel

campo legale.

Povero diavolo, non poteva prevedere che gli sarebbe costato tanto tempo e tante pene.

Aveva una quantità enorme di tempo libero, ma non gli pesava, perché s'interessava a tutto ciò che di nuovo

nasceva nell'universo delle idee; le trasformava in oggetto di studio e di esperimento lì a casa sua. Una delle sue

passioni era la chiromanzia. Un'altra passione rimase senza nome, e non volle mai spiegare a nessuno a cosa servisse,

limitandosi a definirla un divertimento. Aveva scoperto infatti che le sue manie gli accrescevano la fama di svitato, per

cui si guardava bene dal parlarne troppo. La mania senza nome aveva a che fare con le impronte digitali. Si portava

nella tasca della giacca una scatola piatta, a intacchi, dove erano sistemate lastrine di vetro lunghe dodici centimetri e

larghe sette. Sul bordo inferiore di ogni lastrina era incollata una striscetta di carta bianca. Wilson pregava le persone di

passarsi la mano fra i capelli, per raccogliervi un leggero strato di grasso naturale, poi di premere su una lastrina il

pollice e, uno dopo l'altro, i polpastrelli di tutte le altre dita. Sotto questa fila di impronte leggermente unte scriveva,

sulla striscetta di carta, una annotazione tipo:

John Smith, mano destra

e aggiungeva il giorno del mese e l'anno; poi, su un'altra lastrina, prendeva le impronte della sinistra di Smith e

aggiungeva la data e le parole «mano sinistra». Le lastrine venivano quindi rimesse nella scatola e andavano ad

allinearsi tra quelle che Wilson chiamava le sue «schede».

Spesso studiava quelle «schede» esaminandole e concentrandovisi, fino a notte fonda, ma quello che ricavava,

ammesso che ne ricavasse qualcosa, non lo rivelava a nessuno. Talvolta ricopiava sulla carta i tortuosi e delicati.5

arabeschi lasciati da un polpastrello e poi li ingrandiva con un pantografo in modo da poter esaminare con tutto agio la

ragnatela di linee ricurve.

Un pomeriggio soffocante - era il 1° luglio del 1830 - stava cercando di sbrogliare una serie di conti

ingarbugliati nel suo laboratorio che a occidente si affacciava su una distesa di lotti abbandonati, quando lo distrasse

una conversazione che si svolgeva all'esterno. La conversazione era condotta a base di urla, il che stava a dimostrare che

le persone che parlavano non erano vicine tra loro.

«Ehi, Roxy, come ti cresce il pupo?» questa era la voce distante.

«Benone; e a te come ti va, Jasper?» questo da distanza ravvicinata.

«Mica male; non mi posso lagnare. Un giorno o l'altro verrò a dichiararmi, Roxy.»

«Ah sì, brutto grugno nero? ah ah ah! Ho meglio da fare io che perdere tempo con un negro nero come te. Che,

la Nancy della vecchia Cooper t'ha mollato un calcio nel sedere?» E Roxy accompagnò la battuta con un'altra allegra

risata.

«Sei gelosa, ecco cosa sei, piccola sciacquetta. Ah ah ah. Finalmente t'ho pizzicato!»

«Ah sì, m'hai pizzicato? Parola mia, Jasper, se la spocchia ti casca addosso, sicuro che ci rimani. Se

appartenevi a me ti vendevo giù al fiume per tutte le libertà che ti pigli. La prima volta che mi capita di incontrare il tuo

padrone, glielo dico io, eccome.»

Il futile battibecco continuò all'infinito per la gioia dei due interlocutori che si godevano un mondo quel duello

amichevole, tutt'e due pienamente soddisfatti della propria arguzia: perché di arguzia ritenevano si trattasse.

Wilson si accostò alla finestra per osservare i contendenti; non poteva lavorare finché seguitavano a

chiacchierare. Laggiù, nei lotti abbandonati, c'era Jasper, giovane, nero come il carbone, un fisico meraviglioso, seduto

su una carriola in pieno solleone e, teoricamente, al lavoro; in realtà si stava concedendo un'ora di riposo prima di

cominciare. Davanti al porticato di Wilson c'era Roxy, con una carrozzina da neonati fabbricata da un artigiano del

luogo, alle cui opposte estremità erano seduti, uno di fronte all'altro, i suoi due pupilli. A giudicare dal modo di parlare,

un estraneo avrebbe dedotto che Roxy era negra, ma non lo era. Solo per una sedicesima parte era negra, e quella

sedicesima parte non si vedeva. Aveva un aspetto maestoso, atteggiamenti imponenti e statuari, gesti e movenze

improntati a una grazia nobile ed elegante. Di carnagione chiarissima, aveva gote luminose e rosate che testimoniavano

una salute vigorosa. Il volto era pieno di carattere e di espressione; gli occhi scuri e languidi. I capelli, scuri anch'essi,

formavano un ricco, soffice manto, celato al momento dal fazzoletto a quadri che le fasciava il capo. Il viso era ben

modellato, intelligente e gradevole, bello perfino. Aveva un'aria fiera disinvolta, quando si trovava fra la gente della sua

razza. E anche un certo modo di fare altezzoso e «impunito»; ma naturalmente in mezzo ai bianchi, diventava umile e

docile. Sotto tutti i punti di vista Roxy era bianca come chiunque altro, ma quella sedicesima parte negra predominava

sulle altre quindici, e faceva di lei una negra. Era una schiava e come tale merce da vendere. Suo figlio era per trentun

parti bianco e anche lui schiavo e, per un capriccio della legge e delle usanze, un negro. Aveva occhi azzurri e riccioli

biondi, come il suo compagno bianco; perfino il padre del bimbo bianco riusciva a distinguerli - per quel tanto che se ne

occupava - unicamente dai vestiti. Perché il bambino bianco portava una vestina di leggerissima mussola, tutta crespe e

gale e una collanina di coralli, mentre l'altro aveva indosso una semplice camicina di lino grezzo, e niente monili.

Il bambino bianco si chiamava Thomas Becket Driscoll; l'altro Valet de Chambre. Nessun cognome: gli

schiavi non avevano questo privilegio. Roxana aveva sentito da qualche parte quell'espressione: suonava bene e le era

piaciuta, e convinta che si trattasse di un nome proprio, lo aveva affibbiato al suo tesoro. Naturalmente venne ben presto

abbreviato in «Chambers».

Wilson conosceva Roxy di vista, e mentre l'arguto duetto volgeva al termine, era uscito per raccogliere un paio

di «schede». Jasper, vedendo che il suo ozio era stato notato, attaccò energicamente a lavorare.

Wilson guardò i bambini e chiese:

«Che età hanno, Roxy?»

«Tutt'e due la stessa, signore. Cinque mesi. Nati il 1° febbraio.»

«Belle creature. E tutti e due ugualmente belli.»

Un sorriso beato mise in mostra i bianchi denti della ragazza, che disse:

«Siate benedetto, signor Wilson. Siete molto gentile a dire così, perché uno è solo un negro. Un piccolo negro

di prim'ordine, io dico sempre, ma dico così per forza perché è mio.»

«Come fai a riconoscerli, Roxy, quando non hanno addosso i vestiti?»

Roxy rise con una risata proporzionata alla sua mole e disse: «Oh, li riconosco sì, signor Wilson; ma ci

scommetto che padron Pierce non è capace mai.»

Wilson continuò a chiacchierare per un poco e subito dopo prese le impronte digitali di Roxy per la sua

collezione - la mano destra e la sinistra - su due lastrine. Poi le etichettò e datò, e prese le «schede» di entrambi i

bambini, che pure etichettò e datò.

Due mesi dopo, il 3 settembre, prese per la seconda volta questo terzetto d'impronte. Gli piaceva averne una

«serie»: due o tre «riprese» a intervalli regolari durante il periodo dell'infanzia, alle quali facevano seguito altre, a

intervalli di parecchi anni.

Il giorno dopo - vale a dire il 4 settembre - accadde una cosa che turbò profondamente Roxana. Al signor

Driscoll venne a mancare un'altra piccola somma di denaro, il che significa che non si trattava di un fatto nuovo, ma

che esso era accaduto anche prima. A dire il vero era già accaduto tre volte. La pazienza di Driscoll era esaurita. Era

piuttosto umano verso gli schiavi e altri animali; estremamente umano quando si trattava di condonare gli errori di gente.6

della propria razza. Il furto non lo sopportava, e chiaramente in casa sua c'era un ladro. Di necessità il ladro doveva

essere uno dei suoi negri. Andavano prese misure energiche. Convocò davanti a sé i propri servi. Erano tre, oltre a

Roxy: un uomo, una donna e un ragazzino dodicenne, non imparentati tra loro.

Il signor Driscoll disse:

«Siete stati già avvertiti in passato. Non è servito a nulla. Questa volta vi darò una lezione. Venderò il ladro.

Chi di voi è il colpevole?»

Rabbrividirono tutti alla minaccia, perché quella era una buona casa e un'altra avrebbe probabilmente

rappresentato un cambiamento in peggio. Ci fu un diniego generale. Nessuno aveva rubato nulla, non soldi per lo meno.

Un po' di zucchero, qualche dolce, del miele o cose del genere, che a padron Pierce non interessavano, neanche se ne

sarebbe accorto, ma soldi no, neanche un centesimo. Le loro proteste furono eloquenti, ma il signor Driscoll non si

lasciò commuovere. A ciascuno di loro intimò severamente: a Fuori il nome del ladro!»

In verità tutti erano colpevoli, tranne Roxana; lei sospettava che gli altri fossero colpevoli, ma non lo sapeva

con certezza. Le faceva orrore pensare quanto lei stessa fosse stata lì lì per divenire colpevole; l'aveva salvata in

extremis un «risveglio religioso» della chiesa metodista di colore, quindici giorni prima, quando aveva «ricevuto la

fede». Il giorno dopo, mentre ancora fresca di quella benedetta esperienza si pavoneggiava della sua condizione di

purificata, il suo padrone aveva lasciato un paio di dollari a portata di mano sullo scrittoio, e lei si era imbattuta in

quella tentazione mentre stava lustrando la stanza con uno straccio da spolvero. Guardò per un po' il denaro con un

risentimento che cresceva, cresceva, e poi proruppe in un:

«Al diavolo il "risveglio". Magari lo rimandavano a domani!»

Poi coprì il denaro tentatore con un libro, e un altro membro della servitù se lo prese. Consumò quel sacrificio

in nome di un'etica religiosa, come un fatto necessario al momento, ma che non avrebbe a nessun costo segnato un

precedente. No, una settimana o due avrebbero reso più flessibile la sua religiosità, poi avrebbe recuperato il proprio

raziocinio; e i primi due dollari, derelitti e abbandonati, avrebbero trovato chi li consolasse - e lei sapeva bene il nome

di quell'anima buona.

Era cattiva? Peggiore della media della sua razza? No. Nella lotta della vita loro avevano una posizione di

svantaggio, e non ritenevano peccato approfittarsi del nemico, in misura modesta; in misura modesta, non su larga scala.

Sgraffignavano le provviste dalla dispensa ogni volta che si presentava l'occasione, oppure un ditale d'ottone, un

tocchetto di cera, un oggettino smerigliato, una cartina d'aghi, un cucchiaio d'argento o un dollaro, o piccoli effetti di

vestiario, o qualsiasi altro oggetto di poco conto, ed erano talmente lontani dal considerare peccaminosi questi furtarelli

che andavano in chiesa a cantare e pregare con quanto fiato avevano in corpo e con tutta sincerità, pur tenendo in tasca

la refurtiva. Nelle fattorie, il magazzino delle carni affumicate doveva essere munito di un robusto catenaccio, perché lo

stesso diacono negro non avrebbe resistito alla visione di un prosciutto se la Provvidenza gli avesse indicato, in sogno o

altrimenti, dove una simile delizia stava a penzolare tutta sola, in attesa di qualcuno che la sapesse amare. Ma se ce

n'erano cento, a penzolare davanti ai suoi occhi, il diacono non ne prendeva mai due, cioè non nella stessa sera. Nelle

notti di gelata, il ladruncolo negro dal cuore d'oro, era capace di riscaldare l'estremità di una graticciata e metterla sotto

ai piedi freddi delle galline appollaiate su un albero; accadeva che una gallina insonnolita saltava su quella confortevole

impalcatura chiocciando sommessa la propria gratitudine, e il ladruncolo se la faceva cadere prima nella borsa e poi

nello stomaco, perfettamente convinto che nel sottrarre quell'inezia all'uomo che giornalmente lo privava di un tesoro

inestimabile - la libertà - non stava commettendo alcun peccato che il Giorno del Giudizio Dio gli avrebbe rinfacciato.

«Fuori il nome del ladro!» Ripeté il signor Driscoll per la quarta volta e sempre con lo stesso tono duro. E

aggiunse queste parole tremende:

«Vi do un minuto di tempo.» Tirò fuori l'orologio. «Se in capo a un minuto non avrete confessato, non solo vi

venderò tutti e quattro, ma vi venderò a valle del fiume!»

Era come condannarli all'inferno! Nessun negro del Missouri aveva dubbi in proposito. Roxy vacillò e il

colorito le svanì dal viso; gli altri caddero in ginocchio, come abbattuti da una fucilata; le lacrime sgorgarono dagli

occhi, le mani si alzarono supplichevoli, e tre risposte furono emesse contemporaneamente:

«Sono stato io!»

«Sono stato io!»

«Sono stata io! Pietà, padrone. Signore, abbi pietà di noi poveri negri !»

«Va bene,» disse il padrone, riponendo l'orologio. «Vi venderò qui, ancile se non ve lo meritate. Dovreste

essere venduti a valle del fiume.»

I colpevoli si gettarono a terra in un'estasi di gratitudine e gli baciarono i piedi, dichiarando che mai avrebbero

dimenticato la sua bontà e mai avrebbero cessato, per tutta la vita, di pregare per lui. Erano sinceri, perché, come un dio,

egli aveva teso la sua mano possente a chiudere per loro le porte dell'inferno. Anche lui sapeva di aver compiuto un

gesto nobile e generoso, e intimamente si sentì molto soddis fatto della propria magnanimità; e quella sera stessa riportò

l'accaduto nel suo diario così che suo figlio, negli anni a venire, potesse leggerlo e sentirsi a sua volta ispirato a

compiere azioni buone e umanitarie.

III.7

Chiunque abbia vissuto abbastanza da capire cosa sia la vita, sa quale profondo debito di gratitudine dobbiamo ad

Adamo, il primo grande benefattore della nostra razza. Egli portò nel mondo la morte.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Percy Driscoll dormì benissimo la notte in cui salvò i suoi servi dalla sorte di finire a valle del fiume, ma

neppure un'ombra di sonno calò sogli occhi di Roxy. Un terrore profondo si era impadronito di lei. Suo figlio sarebbe

cresciuto e sarebbe stato venduto a valle del fiume! Quel pensiero la rendeva folle d'orrore. Se si addormentava e

perdeva coscienza per un istante, un istante dopo era già in piedi che volava alla culla del bimbo per vedere se fosse

ancora lì. Allora se lo stringeva al cuore e lo ricopriva di tutto il suo amore in un parossismo di baci, di lamenti, di

pianti, dicendo: «Non lo faranno, non lo faranno. Povera mamma tua piuttosto ti ucciderà!»

Una volta, mentre lo rimboccava nella culla, l'altro bambino si rigirò nel sonno e attrasse la sua attenzione.

Allora gli andò vicina e rimase accanto a lui monologando:

«Che ha fatto il povero bambino mio che non gli tocca la fortuna che tocca a te? Niente ha fatto. Dio stato

buono con te; perché non è stato buono con lui? A te non ti possono vendere giù al fiume. Io lo odio, il tuo papà; non ha

cuore - per lo meno non ce l'ha per i negri. Lo odio e mi sento che lo ammazzo!» Si fermò un momento a pensare; poi

proruppe di nuovo in violenti singhiozzi, e si allontanò dicendo: «Oh dio che mi tocca ammazzare il bambino mio, non

mi scampo - accoppare lui non ci salva che il bambino mio lo vendono giù al fiume. Oh dio che mi tocca che lo faccio,

la povera mamma tua ti deve ammazzare, amore mio.» Si strinse al petto il bambino e prese a soffocarlo di carezze.

«Ammazzare ti deve mamma tua - che altro può fare? Ma non t'abbandona mamma tua, no no non piangere - con te

viene mamma tua, pure mamma s'ammazza. Vieni tesoro, vieni insieme a mamma tua; andiamo che ci buttiamo dentro

al fiume, che la facciamo finita con tutte le tribolazioni di questo mondo - là dove andiamo non si vendono i negri giù al

fiume.»

Si avviò verso la porta ninnandolo e tentando di zittirlo. A metà strada d'improvviso si fermò. Le era caduto lo

sguardo sul suo vestito nuovo della domenica - una cosetta da pochi soldi, di cotonina stampata, uno scoppio di colori

vivaci e disegni fantastici. Lo osservò a lungo meditabonda e piena di desiderio.

«Non me lo sono ancora messo mai addosso; eppure quanto è bello.»

Poi, annuendo col capo, in risposta a un pensiero piacevole, aggiunse: «No, che non mi faccio mica pescare

fuori dal fiume, con tutta la gente intorno che mi guarda, in questi miserabili stracci di lana.»

Posò il bambino e si cambiò d'abito. Si guardò allo specchio e stupì della propria bellezza. Decise di

perfezionare al massimo l'acconciatura funebre. Si tolse il turbante e pettinò alla maniera delle «bianche» la massa di

capelli lucidi; aggiunse qualche ritaglio di nastro alquanto sbiadito e un mazzetto di fiori artificiali; poi si gettò sulle

spalle una specie di scialle vaporoso («nuvola» lo chiamavano a quel tempo) di colore rosso fiamma, e fu pronta per la

tomba.

Prese su il bambino; ma quando le caddero gli occhi sulla misera camiciola grigia di lino grezzo, e notò il

contrasto fra la straccioneria del povero piccolo e la propria esplosione vulcanica di infernali splendori, il suo cuore di

madre si commosse e provò una grande vergogna.

«No, tesoro mio, mamma non ti tratterà così. Pure gli angeli ti devono ammirare come mamma tua. Mica si

devono coprire gli occhi con le mani mentre dicono a David e Golia e a tutti gli altri profeti: "Quel pupo sta vestito

indelicato per questo posto."»

E intanto gli aveva tolto la camiciola. Ora la creaturina nuda era stata rivestita con una di quelle lunghe,

candide vesticciole di Thomas Becket, con i fiocchetti azzurri e i delicati fronzoli di trine.

«Ecco qua, ora sì che sei bello e pronto.» Issò il bambino su una sedia e si allontanò un poco per esaminarlo

meglio. Rimase con gli occhi sgranati dallo stupore e dall'ammirazione, batté le mani ed esclamò: «Ma guarda che roba!

E chi se ne era mai accorto che eri tanto bello! Padron Tommy non è per niente meglio di te, ma per niente.»

Si girò a guardare l'altro bambino; poi lanciò un'occhiata al proprio figlio; e ancora un'altra all'erede della casa.

Ora una strana luce le accendeva gli occhi, e per un istante sprofondò nei propri pensieri. Sembrava in trance; quando si

riebbe borbottò: «Ieri, mentre che li lavavo dentro la bagnarola, proprio suo padre mi ha chiesto quale era il suo.»

Prese a muoversi come in sogno. Spogliò Thomas Becket, togliendogli tutto ciò che aveva indosso, e gli infilò

la camiciola di lino grezzo. Passò la collanina di coralli intorno al collo del proprio figlio. Poi mise i due bambini vicini,

e dopo un attento esame borbottò: «Chi lo credeva che quattro pezze facevano tanta scena! Che mi viene un colpo se

pure io ce la faccio più a riconoscere questo da quell'altro, e figuriamoci suo padre, poi.»

Mise il proprio piccolo nell'elegante culla di Tommy e disse:

«Da adesso in avanti tu sei padroncino Tom e devo far pratica a chiamarti così, tesoro mio, sennò prima o poi

mi capita che sbaglio e sai che guai per noi due. Ecco qua, ora te ne stai zitto e buono e non ti pigli pena proprio di

niente, padron Tom, oh! benedetto il buon Dio! salvo sei! salvo! Adesso più nessuno può vendere giù al fiume il piccolo

tesoro della mamma sua!»

Mise l'erede della casa nella culla d'abete grezzo del proprio bambino, e disse, contemplando un po' a disagio,

quel corpicino addormentato:

«Mi dispiace per te, tesoro mio, Dio lo sa se mi dispiace, ma che ci posso fare? che ci posso fare? Tuo padre

me lo vendeva a qualcuno, prima o poi, e lui finiva giù al fiume e io non potevo, no, non potevo sopportarlo.»

Si buttò sul letto, e pensava e si rigirava, si rigirava e pensava. Ma di lì a poco si alzò a sedere, perché nella

mente turbata le era balenato un pensiero consolante..8

«No che non è peccato - pure i bianchi l'hanno fatto, pure loro! No che non è peccato! Dio sia lodato, no che

non è peccato! L'hanno fatto pure loro, eppure erano gente fina, re nientedimeno!»

Si mise a pensare; cercava di pescare nella memoria tutti i particolari di una certa storia che aveva sentito

raccontare. Finalmente esclamò:

«Ecco che me lo ricordo; ecco che me lo ricordo. Lui e stato. il vecchio predicatore negro che ce lo diceva

quando veniva dall'Illinois e predicava nella chiesa negra. Diceva che nessuno può salvarsi da solo, neanche con la fede,

neanche con le opere. Niente da fare. Ci sta soltanto la grazia e la grazia nessuno te la manda, Dio soltanto te la manda;

ci sta soltanto lui che la può mandare a chi gli pare, santo o peccatore - lui non ci fa caso. Lo fa perché è il ministro, lui.

Si sceglie chi gli va, e al posto suo ce ne mette un altro, e il primo lo fa beato per sempre, e quell'altro a bruciare con

Satana lo manda. Il predicatore diceva che così era successo in Inghilterra una volta, tanto tempo fa. La regina aveva

lasciato il figlio suo guardato male e a fare visita se n'era andata; e una delle negre che da quelle parti gironzolava,

quella che pareva più bianca di tutte, di lì passa e vede il pupo e al figlio della regina i vestiti del figlio suo gli mette e lì

lo lascia, e si porta a casa sua, proprio nel quartiere negro, il figlio della regina, e nessuno se ne accorgeva, e suo figlio

diventava re, e un giorno che spartiva la proprietà, il pupo della regina lo vendeva giù al fiume. Sì, sì, il predicatore

proprio lui lo diceva che non era peccato, perché i bianchi l'hanno fatto. L'hanno fatto pure loro, sì, pure loro; e neppure

persone da niente, ma gente fina. Oh che gioia che mi sono ricordata di quella storia!»

Si alzò, tutta sollevata e felice, e si avvicinò alla culla, e passò il resto della notte «a far pratica». Dava una

sculacciatina al proprio figlio e gli diceva umilmente: «Buono, padroncino Tom»; poi dava al vero Tom una robusta

sculacciata e gli diceva con tono severo: «Buono, Chambers! Vuoi che te le suoni con la scopa?»

Mentre continuava a far pratica' si stupì nel notare come il rispetto che aveva tenuto a freno la sua lingua e reso

umili i suoi gesti nei confronti del padroncino si trasferiva, nella voce e nei modi che usava con l'usurpatore; e notò che

le riusciva assai facile usare il suo linguaggio brusco, i suoi modi perentori di madre coll'infelice erede dell'antica casata

dei Driscoll.

Di tanto in tanto si riposava dall'«allenamento» per concentrarsi nel calcolo delle probabilità.

«Oggi vendono i negri che hanno rubato i soldi e poi comprano altri che non conoscono questi bambini - e

questo sta bene. Poi quando li porto a spasso, appena giro l'angolo, gli impiastriccio con la marmellata la bocca, così

nessuno scopre che sono scambiati. Sì, faccio così fino a quando tutto s'è calmato anche se mi ci va un anno.

«Ci sta solo una persona che mi fa paura, Wilson lo Svitato. Lo chiamano Svitato e dicono che è scemo. Ma io

credo non è più scemo di me. È l'uomo più intelligente di tutta la città, a parte Giudice Driscoll e forse Pem Howard.

Accidenti a lui che con quei suoi maledetti vetrini mi mette pensiero. Ho idea che è uno stregone. Ma chi se ne importa.

Un giorno o un altro capito dalle parti sue e gli dico che mi pareva che voleva pigliare ancora le impronte ai due

bambini; e se non se ne accorge lui che sono scambiati, nessuno se ne accorge mai e sto sicura. Mi sa che però è meglio

che mi porto dietro un ferro di cavallo, così è certo che il malocchio non lo piglio.»

Naturalmente i nuovi negri non procurarono fastidi a Roxy. Il padrone neanche, perché temeva per una delle

sue speculazioni, e la sua testa era così assorbita dai pensieri che a mala pena li vedeva, i bambini, quando li guardava, e

tutto quello di cui Roxy si doveva preoccupare era di farli scoppiare tutti e due in una risata appena lo vedeva arrivare.

Allora le loro faccine diventavano due cavità con le gengive messe a nudo, e prima ancora che la contrazione passasse e

le creature riprendessero aspetto umano, lui già se n'era andato.

Nel giro di pochi giorni le sorti della speculazione in corso si fecero così incerte che il signor Percy andò, con

suo fratello il giudice, a vedere il da farsi. Come al solito si trattava di una speculazione terriera, complicata da una

vertenza legale. I due uomini rimasero fuori sette settimane. Prima del loro ritorno Roxy era andata a far visita a

Wilson, ed era stata esaudita. Wilson aveva preso le impronte, le aveva etichettate coi nomi e la data ( 1° ottobre),

riposte con cura, e aveva continuato a chiacchierare con Roxy che sembrava ansiosa di fargli ammirare i progressi dei

bambini, sia in peso che in bellezza, da quando gli aveva preso le impronte, un mese prima. Lui si complimentò per i

progressi, e lei ne fu felice. Ma i bambini non erano stati imbrattati né di marmellata né d'altro e lei non aveva fatto che

fremere e temere che da un momento all'altro lui...

Ma non accadde nulla. Non se ne accorse. E lei tornò a casa giubilante e abbandonò per sempre ogni

preoccupazione al riguardo.

IV

Adamo ed Eva godettero di molti vantaggi, ma il più grosso fu quello di evitare la dentizione.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

C'è questo di brutto, in certi particolari interventi della Provvidenza - che spesso sorge il dubbio su chi debba esserne il

beneficiario. Nel caso dei bambini, degli orsi e del profeta, gli orsi della storia si presero maggiori soddisfazioni del

profeta, perché a loro toccarono i bambini.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Da ora in poi questa storia si deve adeguare allo scambio effettuato da Roxana e chiamare quindi «Chambers».9

il vero erede e «Thomas Becket» il piccolo schiavo usurpatore, abbreviandogli il nome in «Tom», per uso quotidiano,

come faceva la gente che gli stava attorno. «Tom» fu un bambino cattivo fin dai primi giorni della sostituzione.

Piangeva per nulla; si abbandonava a infernali, subitanee crisi di nervi, emetteva strilli su strilli e coronava il tutto

«trattenendo il respiro», terrificante specialità dei lattanti sotto dentizione, quando la creatura, coi polmoni spossati, è

scossa da silenziose convulsioni e spasima e scalcia nello sforzo di riprendere fiato, mentre le labbra si fanno livide e la

bocca si spalanca e rimane rigida, esibendo un minuscolo dentino sporgente nella coroncina di gengive arrossate; e

quando l'immobilità spaventosa è giunta al punto da far credere che il respiro perduto non tornerà mai più, una

bambinaia arriva di volata e spruzza acqua sul viso del bambino e... là! i polmoni aspirano ed emettono all'istante uno

strillo, o un urlo o un ululato che lacera le orecchie degli astanti, i quali inopinatamente si abbandonano a locuzioni

abbastanza disdicevoli per un'aureola, caso mai l'avessero. Il piccolo Tom era solito graffiar e chiunque si trovasse a

portata delle sue unghie, e spesso colpiva col sonaglio chi gli capitava sotto. Chiedeva l'acqua urlando selvaggiamente

finché non gliela portavano, e allora scaraventava per terra la tazza e tutto il resto per poi urlare di nuovo che ne voleva

ancora. Tutti i suoi capricci erano soddisfatti, anche i più esasperanti e sfibranti. Gli permettevano di mangiare tutto

quello che voleva, perfino le cose che potevano procurargli un mal di pancia.

Quando fu abbastanza grande e cominciò a camminare, a pronunciare mozziconi di parole e a capire che uso

poteva fare delle proprie mani, si fece più pestifero che mai Roxy non poteva riposarsi un minuto, quando lui era

sveglio. Voleva tutto ciò che vedeva e lo esigeva dicendo: «'o voio.» Quando l'aveva, diceva freneticamente,

allontanandolo da sé con le mani, «no 'o voio, no 'o voio», ma non appena la cosa spariva cacciava urla forsennate a

base di «'o voio 'o voio 'o voio» e Roxy doveva mettersi le ali ai piedi per riprenderla prima che lui avesse il tempo di

farsi venire le convulsioni.

Andava pazzo per le molle da fuoco. Questo perché «suo» padre gliele aveva proibite per paura che spaccasse i

vetri e la mobilia. Non appena Roxy gli voltava le spalle, trotterellava verso le molle e diceva «piace» e sbirciava con la

coda dell'occhio se Roxy lo stesse osservando; poi «'o voio», e dava un'altra sbirciata, poi «'o pendo», e un'altra

sbirciata; e finalmente «l'ò péso» e il trofeo era suo. In un baleno il pesante strumento veniva sollevato in alto, e un

istante dopo si udiva uno schianto e un urlo, e il gatto fuggiva come un razzo; e Roxy arrivava giusto nel momento in

cui una lampada o una finestra andava irrimediabilmente in frantumi.

Tom riceveva un mucchio di carezze, Chambers neanche una. A Tom toccavano tutte le leccornie, a Chambers

polenta e latte e latte cagliato senza zucchero. Di conseguenza, Tom era malaticcio e Chambers no. Tom era «bizzoso»,

come diceva Roxy, e insopportabile; Chambers era mite e docile.

Nonostante tutto il suo buon senso e le sue doti pratiche, Roxy era una madre indulgente, stupida addirittura.

Era stupida verso il proprio figlio e anche qualcosa di più che stupida: la finzione da lei stessa creata aveva fatto di lui il

suo padrone; la necessità di riconoscere pubblicamente questo rapporto e di perfezionarsi nelle forme richieste per

esprimere questo riconoscimento l'aveva indotta a tale disciplina e lealtà nella pratica del suo ruolo che ben presto

l'esercizio si consolidò in abitudine: divenne automatico e inconscio e produsse infine una conseguenza naturale: le

finzioni destinate esclusivamente agli altri divennero a poco a poco auto-inganni; il falso ossequio divenne ossequio

reale, il falso rispetto rispetto reale; il falso omaggio, omaggio reale; l'esigua, fittizia «spaccatura» tra pseudo-schiavo e

pseudo-padrone si allargò sempre più fino a diventare un abisso, e un abisso reale. Così da un lato c'era Roxy, la vittima

della propria finzione, e dall'altro suo figlio che non era più, per lei, un usurpatore, ma il suo padrone riconosciuto e

accettato. Era a un tempo il suo tesoro, il suo padrone e il suo dio, e Roxy, nella propria adorazione, dimenticò chi era

lei e chi era stato lui.

Da bambino Tom rifilava impunemente a Chambers pugni, graffi e ceffoni, e Chambers imparò ben presto che

fra sopportare docilmente e risentirsi, la soluzione più vantaggiosa era la prima. Le poche volte che quelle persecuzioni

gli avevano fatto perdere il controllo, spingendolo a reagire, l'aveva pagata cara; non per mano di Roxy, perché anche

quando la punizione di lei andava al di là di un aspro rimprovero per «essersi dimenticato chi fosse il suo padroncino»,

si limitava a uno scapaccione. No, chi bisognava temere era Percy Driscoll. Lui aveva detto a Chambers che nessuna

provocazione al mondo gli avrebbe mai dato il privilegio di alzare la mano contro il suo padroncino. Chambers trasgredì

all'ordine tre volte e ne ebbe in cambio tre bastonate così convincenti, dall'uomo che era suo padre e non lo sapeva, che

da quel momento non ci provò più e accettò in totale sottomissione le crudeltà di Tom.

Fuori di casa, durante tutta la fanciullezza, i due ragazzi furono inseparabili. Chambers era molto forte per la

sua età, e un buon lottatore; era forte perché era stato nutrito in modo primitivo e costretto a lavorare sodo in casa; e un

buon lottatore perché Tom gli forniva molte occasioni di far pratica su quei ragazzini bianchi che odiava e che temeva.

Chambers gli faceva costantemente da guardia del corpo nel tragitto casa-scuola e viceversa; ed era presente all'ora

dell'intervallo per difendere il suo protetto. Col tempo si fece una tale reputazione di lottatore che Tom avrebbe potuto

cambiare d'abito con lui e «cavalcare in pace» come Sir Kay con l'armatura di Lancillotto.

Era bravo anche nei giochi di destrezza. Tom gli passava le biglie per giocare «a palline» e poi gli portava via

tutta la vincita. D'inverno Chambers, con gli abiti smessi di Tom, i guanti di lana bucati, le scarpe bucate e i pantaloni

bucati ai ginocchi e sul sedere, doveva essere sempre pronto a trascinare la slitta su per la collina così che Tom potesse

scivolare a valle, ma non capitava mai che fosse invitato a montarci sopra. Seguendo le istruzioni di Tom, doveva

costruire pupazzi di neve e fortini di neve. Faceva pazientemente da bersaglio quando a Tom veniva voglia di tirare

palle di neve, un bersaglio che non poteva mai rispondere al tiro. Chambers portava i pattini di Tom fino al fiume e

glieli infilava, poi gli trotterellava vicino, sul ghiaccio, per essere a portata di mano in caso di bisogno, ma lui non

veniva mai invitato a infilarseli..10

D'estate il passatempo preferito dei ragazzini di Dawson's Landing era quello di rubare mele, pesche e meloni

dai carretti dei contadini, più che altro per il rischio che correvano di farsi spaccare la testa col manico della frusta dal

proprietario. In queste ladruncolerie Tom era bravissimo... per procura. Chambers rubava per lui, e riceveva la sua parte

di bottino sotto forma di noccioli di pesche, torsoli di mela e bucce di melone.

Tom pretendeva che Chambers andasse a nuotare con lui e gli rimanesse vicino per proteggerlo. Quando Tom

era stufo di nuotare, usciva dall'acqua e faceva tanti nodi alla camicia di Chambers, poi li immergeva nell'acqua perché

fosse più difficile scioglierli; poi si rivestiva e rimaneva seduto a sghignazzare mentre l'altro, nudo e scosso dai brividi,

cercava di sciogliere i nodi coi denti. Tom giocava questi brutti tiri al suo umile compagno un po' per la sua innata

perfidia, un po' perché odiava la prestanza fisica dell'altro, il suo coraggio e le sue molteplici abilità. Tom non poteva

fare i tuffi perché gli venivano certi mal di testa da impazzire. Chambers poteva tuffarsi senza inconvenienti e ci si

divertiva un mondo. Un giorno suscitò tale ammirazione fra un gruppo di ragazzini bianchi, facendo salti mortali

all'indietro dalla prua della canoa, che Tom s'impermalì e mentre Chambers era a mezz'aria, gli spinse sotto la canoa

così da fargli battere la testa sul fondo; e mentre lui se ne stava lì, privo di sensi, molti vecchi nemici di Tom capirono

che era giunto il tanto atteso momento c suonarono al falso erede tali e tante legnate che più tardi, sebbene sorretto

validamente da Chambers, riuscì a stento a trascinarsi a casa.

Un giorno - i ragazzi avevano più o meno quindici anni - Tom si stava «esibendo» nel fiume quando fu preso

da un crampo e si mise a urlare aiuto. Era urlo scherzo frequente fra i ragazzi, specialmente in presenza di estranei,

fingere di avere un crampo e chiedere aiuto; poi, quando l'estraneo si precipitava a soccorrerlo, il «pericolante»

continuava a dimenarsi e a urlare finché quello non gli era vicino, dopo di che passava dalle urla a una risatina

sarcastica e si allontanava nuotando placidamente mentre i ragazzi del paese lanciavano all'indirizzo del gabbato una

salve di fischi e risate. Tom non si era ancora cimentato in questo scherzo, ma adesso pareva proprio che ci stesse

provando, per cui i ragazzi si tennero cautamente indietro; invece Chambers, convinto che il suo padrone facesse sul

serio, si buttò a nuoto e, sfortunatamente, arrivò in tempo per salvargli la vita.

Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Tom era riuscito a sopportare tutto, ma trovarsi pubblicamente e per

sempre debitore di un negro, e di quel negro in particolare, era proprio troppo. Scagliò ogni sorta d'improperi

all'indirizzo di Chambers, per aver «finto» di credere che lui avesse chiamato aiuto sul serio, e aggiunse che chiunque,

tranne che un idiota di negro, avrebbe capito che stava scherzando e lo avrebbe lasciato in pace.

I nemici di Tom erano lì presenti in gran numero e gli dissero in faccia quello che pensavano. Lo derisero e lo

chiamarono codardo, falso, intrigante e con ogni sorta di epiteti, e gli annunciarono che avevano deciso di dare a

Chambers un nuovo nome e di farlo conoscere a tutta quanta la città: «il papà negro di Tom Driscoll», a significare che

Tom era rinato e che Chambers era l'autore di questa seconda nascita. A queste provocazioni Tom diventò un ossesso e

urlò:

«Spaccagli la testa, Chambers, spaccagli la testa! Perché te ne stai lì con le mani in mano?»

Chambers lo supplicò: «Ma padron Tom, sono in troppi...»

«Mi senti?»

«Per carità, padron Tom, non mi costringete! Sono così tanti che...»

Tom gli si avventò contro e lo colpì due o tre volte con il temperino` prima che i ragazzi riuscissero a

trascinarlo via, dando modo al ferito di scappare. Le ferite erano numerose ma non gravi. Se la lama fosse stata un poco

più lunga, la carriera di Chambers si sarebbe chiusa lì.

Tom aveva già da tempo insegnato a Roxy a «stare al suo posto». Molti giorni erano passati da quando lei

aveva osato fargli una carezza o chiamarlo con epiteti affettuosi. Queste cose, venute «da una negra», gli facevano

ribrezzo. E l'aveva ammonita a mantenere le distanze e a ricordarsi chi era. A poco a poco lei capì che il suo tesoro

aveva cessato di essere suo figlio, vide quel dettaglio dissolversi e sparire per sempre. Rimaneva solo il padrone, il

padrone puro e semplice, e non si trattava neppure di una padrone benevolo. Si sentì precipitare dalla sublime altezza

della maternità nello squallido baratro di una schiavitù irreversibile. L'abisso che la separava dal figlio era totale. Ormai

lei era soltanto una sua proprietà, il suo oggetto, il suo cane, la sua schiava succube e impotente, l'umile e passiva

vittima del suo temperamento capriccioso e della sua natura malvagia.

Spesso non riusciva a dormire, per quanto stanca e distrutta, perché si sentiva bollire di rabbia ripensando alle

esperienze della giornata col figlio. Borbottava e biascicava tra sé e sé:

«M'ha menato quando avevo fatto niente. M'ha menato sulla faccia. Proprio davanti a tutti. E non fa che

chiamarmi strega negra, baldracca e tutti quei nomi cattivi quando io faccio tutto per contentare lui. Oh Dio e con tutto

quello che ho fatto per lui, io sono stata che l'ho innalzato da dove stava e questa è la ricompensa mia.»

Talvolta, quando subiva un oltraggio tanto offensivo da rimanerne ferita nel profondo del cuore, meditava

piani di vendetta e si crogiolava a immaginare la scena di lui, denunciato davanti a tutti come un impostore e uno

schiavo; ma in mezzo a tanto godimento, l'assaliva la paura: lo aveva reso troppo potente; non avrebbe avuto prove, e -

il cielo ne scampi - poteva essere venduta giù al fiume per quella sua azione. Così i suoi progetti andavano sempre in

fumo e li accantonava con un moto di rabbia impotente contro il destino e contro se stessa per essere stata tanto sciocca,

quel fatale giorno di settembre, da non procurarsi un testimone da esibire il giorno in cui, per appagare la sete di

vendetta, le fosse servito fare una cosa simile.

E tuttavia non appena Tom era buono con lei e gentile - e questo ogni tanto accadeva - tutte le ferite si

rimarginavano e lei si sentiva felice; felice e fiera, perché era suo figlio, suo figlio negro, questo che spadroneggiava in

mezzo ai bianchi e vendicava impunemente i loro crimini contro la sua razza..11

Ci furono due grandiosi funerali a Dawson's Landing, quell'autunno, l'autunno del 1845. Uno fu quello del

colonnello Cecil Burleigh Essex, l'altro quello di Percy Driscoll.

Sul letto di morte Driscoll affrancò Roxy e rimise solennemente il proprio idolatrato figlio presunto nelle mani

del giudice suo fratello e di sua moglie. Quella coppia senza figli fu lieta di accoglierlo. La gente senza figli è di facile

accontentatura. Il giudice Driscoll si era recato segretamente dal fratello, un mese prima, e aveva. comprato Chambers.

Gli era giunta voce che Tom stava tentando d; convincere il padre a venderlo a valle del fiume e voleva impedire lo

scandalo, perché l'opinione pubblica non approvava che si trattassero così, senza ragione o per motivi futili, i servi di

famiglia.

Percy Driscoll aveva consumato tutte le sue energie nel tentativo di salvare il proprio patrimonio terriero

accumulato mediante grandiose speculazioni, ed era morto senza riuscirvi. Era calato da poco nella tomba quando ci fu

il crack che di punto in bianco fece del suo tanto invidiato e scapestrato erede un poveraccio. Poco male comunque; lo

zio gli disse che sarebbe diventato suo erede e avrebbe avuto tutti i suoi beni, quando lui fosse morto, e così Tom si

consolò.

Roxy adesso era senza una casa; così decise di andare a salutare tutti i suoi amici per poi far fagotto e girare il

mondo: in altre parole, sarebbe diventata cameriera di bordo su un piroscafo, ambito sogno di quelli della sua razza e

del suo sesso.

L'ultima visita la fece al gigante nero Jasper. Lo trovò che stava spaccando la legna per la provvista invernale

di Wilson lo Svitato. Wilson stava chiacchierando con lui quando arrivò Roxy. Le domandò come poteva sopportare

l'idea di tare la cameriera di bordo, lasciando i suoi ragazzi, e bonariamente si offrì di copiarle tutta la serie delle loro

impronte digitali, fino ai dodici anni, da tenere per ricordo; ma lei si fece subito seria, chiedendosi se egli non

sospettasse qualcosa; poi disse che non le voleva. Wilson si disse: «Quella goccia di sangue negro che è in lei la rende

superstiziosa; pensa che ci sia qualcosa di diabolico, di magico nei miei vetrini misteriosi; veniva sempre qui con un

vecchio ferro di cavallo; può darsi che fosse un caso, ma ne dubito.»

V

L'evoluzione è tutto. La pesca, un tempo, era una mandorla amara; il cavolfiore non è che un cavolo che ha frequentato

l'università.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Opinione del dottor Baldwin sulla gente venuta dal nulla: a nessuno piace mangiare funghi che si credono tartufi.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

La moglie di York Driscoll ebbe in dono due anni di beatitudine col suo impareggiabile Tom... una beatitudine

un poco turbata, a volte, ma pur sempre una beatitudine; poi morì, e suo marito e la sorella senza figli, la signora Pratt,

si gestirono l'affare-benedizione secondo i vecchi moduli. Tom fu vezzeggiato, accontentato, viziato a suo piacimento, o

quasi. La storia andò avanti fino a quando compì diciannove anni, poi fu mandato a Yale. Arrivò doviziosamente

munito di «esoneri», ma per il resto laggiù non si distinse affatto. Rimase a Yale per due anni e poi abbandonò il campo.

Quando tornò a casa, i suoi modi erano notevolmente migliorati; aveva perso l'antica scontrosità e rudezza di tratto, ed

era diventato abbastanza malleabile e disinvolto. Aveva un modo di parlare a volte subdolamente e a volte apertamente

ironico, e tendeva a pungere delicatamente sul vivo il suo prossimo, ma lo faceva con un'aria bonaria e quasi

inconsapevole, che gli consentiva di passarla liscia, senza ficcarsi nei guai. Era indolente come sempre e sembrava che

non ambisse a cercarsi una qualche occupazione; la gente ne dedusse che preferiva farsi mantenere dallo zio, fino a

quando le scarpe dello zio non fossero rimaste «vacanti». Si portò dietro un paio di nuove abitudini, una delle quali, il

bere, praticata abbastanza apertamente; ma l'altra, il gioco d'azzardo, la tenne celata. Non gli conveniva giocare dove

qualcuno poteva riferirlo allo zio, questo lo sapeva bene.

I modi raffinati di Tom, da uomo dell'Est, non gli attirarono le simpatie dei giovanotti del luogo. Li avrebbero

forse accettati se Tom si fosse fermato lì; ma lui portava i guanti, e questo non lo sopportavano né lo avrebbero

sopportato mai; così non aveva amici. Era tornato a casa con un guardaroba di stile e di taglio così insoliti - moda

dell'Est, moda cittadina - che tutti ne rimasero profondamente esacerbati, considerandolo come un affronto

particolarmente spudorato. Quanto a Tom, gli piaceva «far sensazione», e si pavoneggiava tutto il giorno in città, felice

e contento; ma i giovanotti, una notte, misero al lavoro un sarto, e quando Tom la mattina seguente uscì per fare la sua

passeggiata, si ritrovò il banditore negro, vecchio e deforme, che gli trotterellava dietro tutto azzimato in una sfarzosa

imitazione, in cotonina stampata, dei suoi abiti raffinati, scimmiottando come meglio poteva le sue arie aristocratiche da

uomo dell'Est.

Tom s¦ arrese, e da allora si vestì secondo la moda locale. Ma l'uggiosa vita di paese lo annoiava da quando

aveva conosciuto posti più animati, e ogni giorno la noia cresceva. Cominciò a fare qualche puntata a St. Louis per

respirare un poco. Lì trovò compagnia adatta e distrazioni consone ai suoi gusti, oltre a una libertà per alcuni aspetti

maggiore di quella che poteva trovare a casa sua. Così, per i due anni successivi, le visite alla città divennero più

frequenti e le soste laggiù più prolungate. Ma si stava cacciando in brutte acque. Correva segretamente certi rischi che.12

un giorno o l'altro lo avrebbero incastrato. E così fu.

Nel 1850 il giudice Driscoll si era ritirato dal foro e dagli affari, e da tre anni conduceva una vita placidamente

oziosa. Era presidente della Società dei Liberi Pensatori, di cui Wilson lo Svitato era l'altro membro. Le riunioni

settimanali della Società rappresentavano ora l'interesse primario della vita del vecchio giurista. Wilson lo Svitato

seguitava a restare in ombra, all'ultimo gradino della scala sociale, sotto il maleficio di quella disgraziata frase che si era

lasciato sfuggire ventitré anni prima, a proposito del cane.

Driscoll gli era amico, e sosteneva che Wilson aveva un cervello superiore alla media, tesi accolta come una

fisima del giudice, che non riuscì mai a modificare l'opinione pubblica. A dire il vero questa era soltanto una delle

ragioni per cui non ci riuscì, ma ce n'era un'altra, anche migliore. Se il giudice si fosse limitato a una semplice

dichiarazione, avrebbe sortito lo scopo; ma commise l'errore di voler comprovare la validità della propria presa di

posizione. Da qualche anno Wilson stava lavorando per conto proprio e per puro sfizio a un astruso almanacco, un

calendario dove un tocco di pura filosofia, solitamente esposta in forma ironica, corredava ogni data. Il giudice riteneva

che queste lepidezze e stravaganze fossero originali e ben scritte; così un giorno se ne portò dietro una manciata e le

lesse ad alcuni cittadini di riguardo. Ma l'ironia non si addiceva a quella gente, e la loro visione non riusciva a

focalizzarla. Lessero quelle facezie con la massima diligenza e decisero senza esitazione che se mai avessero dubitato -

e non dubitavano - che Dave Wilson era uno svitato, questa rivelazione troncava una volta per sempre ogni dubbio. Così

va il mondo. Un nemico può rovinarti in parte; ma per completare l'opera e renderla perfetta ci vuole un amico incauto e

bene intenzionato. Dopo di ciò il giudice si sentì più tenero che mai nei riguardi di Wilson, e più sicuro che mai che il

suo Calendario avesse dei meriti.

Il giudice Driscoll riusciva ad essere un libero pensatore e allo stesso tempo una persona socialmente accettata

perché era la figura più eminente del paese, e come tale poteva permettersi di fare a modo suo e vivere secondo le sue

regole. L'altro membro della sua amata organizzazione godeva della stessa libertà perché, nella stima della gente, era un

essere insignificante e nessuno attribuiva la minima importanza a quello che pensava o diceva. Era benvoluto, e tutti lo

accoglievano con piacere, ma non contava proprio nulla.

La vedova Cooper - chiamata affettuosamente da tutti «zia Patsy» - viveva in una casetta graziosa e

confortevole, con la figlia Rowena, una ragazza di diciannove anni, romantica, amabile, e molto carina, ma per il resto

senza importanza. Rowena aveva due fratelli, anche loro senza importanza.

La vedova aveva una grande stanza in più, che affittava, quando trovava un pensionante, ma erano ormai anni

che con suo grande dispiacere la stanza rimaneva vuota. Le entrate bastavano appena a mantenere la famiglia: e il

denaro dell'affitto le occorreva per le piccole spese extra. Ma ora, finalmente, in una infuocata giornata di giugno, zia

Patsy ritrovò la felicità: la tediosa attesa era finita. Era arrivata la risposta alla sua inserzione di un anno prima: e non da

uno del paese, no! La lettera veniva da molto lontano, dal grande, remoto mondo del Nord: da St. Louis. Zia Patsy si

sedette sulla veranda fissando, senza vederla, la luccicante distesa dell'immenso Mississippi, tutta presa dal pensiero

della sua buona stella. E di buona stella si trattava davvero, perché avrebbe avuto due pensionanti invece di uno.

Aveva letto la lettera alla famiglia riunita, e Rowena, saltando di gioia, era corsa ad assicurarsi che la vecchia

schiava Nancy pulisse e arieggiasse la camera, e i ragazzi si erano precipitati in città a divulgare la grande notizia,

perché si trattava di una cosa di pubblico interesse, e il pubblico sarebbe rimasto meravigliato e spiaciuto se fosse stato

tenuto all'oscuro. Poco dopo Rowena tornò, rossa in viso per la gioia e l'eccitazione, e chiese di poter rileggere la lettera.

Diceva: «Distinta signora, mio fratello ed io abbiamo letto per caso la sua inserzione e la preghiamo di metterci a

disposizione la stanza che lei offre. Abbiamo ventiquattro anni e siamo gemelli. Siamo italiani di nascita, ma abbiamo

vissuto in vari paesi europei, e per molti anni anche negli Stati Uniti. Ci chiamiamo Luigi e Angelo Capello. Lei

desidera un solo ospite; ma, cara signora, se ci permetterà di pagare per due, non le daremo alcun disturbo. Arriveremo

giovedì.»

«Due italiani! Che cosa romantica! Pensa, ma'... non ci sono mai stati italiani qui in città, e tutti moriranno

dalla voglia di vederli, e sono tutti nostri! Pensa!»

«Sì, credo che la cosa farà scalpore!»

«Certo che lo farà! Tutta la città sarà sottosopra! Pensa, sono stati in Europa e un po' dappertutto! Non

abbiamo mai avuto viaggiatori qui in città. Sai, ma', non mi meraviglierei se avessero visto anche qualche re!»

«Beh, non si sa mai... Comunque, faranno scalpore lo stesso.»

«Ma certo! Luigi, Angelo... Che bei nomi, e così nobili ed esotici!... non come Johns e Robinson eccetera.

Arrivano giovedì, e oggi è appena martedì. Che peccato dover aspettare tanto. C'è al cancello il giudice Driscoll. Deve

averlo saputo. Vado ad aprire.»

Il giudice era pieno di curiosità e fece le sue congratulazioni. La lettera fu letta e discussa. Di lì a poco arrivò

Robinson, il giudice di pace, per complimentarsi anche lui, e la lettera fu riletta e dis cussa daccapo. Ma questo non era

che l'inizio. Per tutta la giornata e la serata e per tutta la giornata di mercoledì e di giovedì fu una processione di vicini

d'ambo i sessi. La lettera fu letta e riletta fino a consumarsi o quasi; tutti ne ammirarono il tono elegante e cortese, lo

stile piano e scorrevole, tutti si mostravano felici ed eccitati, e in tutto quel frangente i Cooper sprizzavano felicità.

A quei tempi, con l'acqua bassa, gli orari dei battelli erano approssimativi; quella volta alle dieci di sera il

vaporetto del giovedì non era ancora arrivato, per cui la gente aspettò inutilmente alla banchina per l'intera giornata. Un

violento temporale li costrinse tutti a rincasare senza aver visto gli illustri passeggeri.

Alle undici la casa dei Cooper era la sola, in città, che avesse tutte le luci accese. La pioggia e i tuoni

continuavano a imperversare, e la famiglia aspettava sempre, ansiosa e piena di speranza. Finalmente si udì bussare alla.13

porta, e la famiglia si precipitò ad aprire. Entrarono due negri, con un baule ciascuno, e salirono di sopra alla camera

degli ospiti. Poi entrarono i gemelli: i due giovanotti più belli, più eleganti, più distinti che l'Ovest avesse mai visto.

Uno era un poco più biondo dell'altro, ma per il resto erano perfettamente identici.

VI

Sforziamoci di vivere in modo tale che quando moriremo perfino il becchino ne sia addolorato.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

L'abitudine è abitudine, e nessuno può buttarla dalla finestra; si può, semmai, spingerla giù dalle scale un gradino alla

volta.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Il mattino, a colazione, i modi affascinanti dei gemelli e il loro comportamento distinto e disinvolto

conquistarono subito la famiglia. Ogni riserbo e formalismo scomparvero d'incanto per cedere il passo a un clima di

cordiale spontaneità. Quasi dal primo momento zia Patsy li chiamò coi loro nomi di battesimo. Era curiosissima nei loro

riguardi e non ne faceva mistero; e loro furono compiacenti: parlarono liberamente di sé, e ciò la rese molto felice. Si

venne così a sapere che da piccoli avevano conosciuto la miseria e gli stenti. Man mano che parlavano la vecchia

signora aspettava il momento propizio per far cadere qualche domanda in proposito, e quando le capitò disse al gemello

biondo che faceva ora da biografo, mentre l'altro, il bruno, si riposava: «Se non sono indiscreta, signor Angelo, come

mai vi siete trovati senza amici e in tante difficoltà, quando eravate piccoli? Le dispiace dirmelo? Ma se le dispiace, non

me lo dica.»

«Oh, non ci dispiace affatto, signora: nel nostro caso si è trattato di sfortuna; non fu colpa di nessuno. I nostri

genitori erano ricchi, in Italia, e noi eravamo i loro unici figlioli. Discendevamo da una nobile famiglia di Firenze,» il

cuore di Rowena diede un gran balzo, le narici le si dilatarono e gli occhi le si empirono di luce, «ma quando scoppiò la

guerra, mio padre si trovò dalla parte perdente e dovette fuggire. Si vide confiscare i suoi beni, perse le sue proprietà, e

ci ritrovammo in Germania, stranieri, senza amici e poveri. Mio fratello e io avevamo dieci anni ed eravamo molto

istruiti per la nostra età, studiosi, appassionati di libri, e conoscevamo bene il tedesco, il francese, lo spagnolo e

l'inglese. Inoltre eravamo dei veri prodigi in fatto di musica, se mi è lecito dirlo, dato che è la pura verità.

«Nostro padre sopravvisse un mese alle sue disgrazie, nostra madre lo seguì ben presto, e noi ci ritrovammo

soli al mondo. I nostri genitori avrebbero potuto arricchirsi esibendoci in un circo, e infatti avevano ricevuto molte

offerte del genere, ma la sola idea offendeva il loro orgoglio, e dichiararono che avrebbero preferito piuttosto morire di

fame. Ma quello che loro rifiutarono, lo dovemmo accettare noi, senza la formalità del consenso. Fummo sequestrati per

via dei debiti contratti per la loro malattia e per i funerali, e messi fra le attrazioni di un baraccone di Berlino, a

guadagnarci i soldi del riscatto. Ci vollero due anni per liberarci da quella catena. Viaggiavamo per tutta la Germania

senza ricevere né la paga né i soldi per il mantenimento. Dovevamo esibirci gratis e chiedere l'elemosina.

«Ebbene, signora, quel che segue non è molto interessante. Quando, a dodici anni, sfuggimmo alla schiavitù,

eravamo in un certo senso già adulti. L'esperienza ci aveva insegnato cose importanti; tra le altre, ad aver cura di noi

stessi, ad evitare gli avventurieri e i furfanti, e combatterli; a curare i nostri affari con nostro profitto e senza l'aiuto di

nessuno. Abbiamo viaggiato ovunque, anni e anni, facendoci un'infarinatura di lingue esotiche, abituandoci a usanze e

luoghi strani, accumulando esperienze di ogni tipo. È stata una vita piacevole. Siamo stati a Venezia, a Londra, a Parigi,

in Russia, in India, in Cina e in Giappone.»

A questo punto Nancy, la schiava negra, fece capolino dalla porta ed esclamò: «Signora, la casa è piena zeppa

di gente che scoppia dalla voglia di vedere i signori!» e con un cenno del capo indicò i gemelli; poi si ritrasse.

Era un'occasione di prestigio per la vedova, e lei si riprometteva un'enorme soddisfazione nell'esibire le sue

due rarità ad amici e parenti; gente semplice, che non aveva mai visto un forestiero in vita sua, e comunque mai uno di

qualche rilievo. E tuttavia i sentimenti di lei erano piuttosto blandi paragonati a quelli di Rowena. Rowena era al settimo

cielo, sembrava librata in aria; questo doveva essere il giorno più bello, l'episodio più romantico, nella storia scolorita di

quella monotona cittadina di provincia. E lei sarebbe stata, familiarmente, accanto alla sorgente di tanta gloria, e si

sarebbe sentita travolgere dalla sua piena: le altre ragazze avrebbero soltanto assistito, invidiose, escluse.

La vedova era pronta, Rowena era pronta, e i forestieri pure. La comitiva si mosse, con i gemelli in testa, e

varcò l'uscio aperto del salotto da cui veniva un brusio di voci. I gemelli si fermarono sulla soglia, la vedova si mise a

fianco di Luigi, Rowena a fianco di Angelo, la gente cominciò a sfilare ed ebbero inizio le presentazioni. La vedova era

tutta sorrisi e contentezza. Riceveva la sfilata e poi la passava a Rowena.

«Buongiorno, sorella Cooper,» - stretta di mano.

«Buongiorno, fratello Higgins - il conte Luigi Capello, il signor Higgins,» - stretta di mano, seguita da

un'occhiata indagatrice, poi: «Piacere,» da parte del signor Higgins, e un cortese cenno del capo con un cordiale: «Molto

lieto» da parte del conte Luigi.

«Buongiorno, Rowena,» - stretta di mano.

«Buongiorno, signor Higgins - le presento il conte Angelo Capello,» - stretta di mano, occhiata di.14

ammirazione: «Felice di conoscerla,» - cortese cenno del capo, sorriso: «Felicissimo!» e Higgins passa oltre.

Nessuno dei visitatori si sentiva a proprio agio, ma da gente onesta, non fingeva di esserlo. Nessuno di loro

aveva mai visto una persona fregiata di titolo nobiliare, né era preparato a vederla ora, e ovviamente il titolo nobiliare fu

una sorpresa in più e li prese tutti alla sprovvista. Qualcuno tentò di essere all'altezza della situazione e tirò fuori un

imbarazzato «Milord» o «Vostra Signoria» o qualcosa di simile, ma la grande maggioranza fu sopraffatta dalla parola

inconsueta e dalla sua vaga e augusta associazione con auree corti, cerimonie maestose e regalità consacrate, così che

davano la mano, annaspando, e passavano oltre, ammutoliti. Di tanto in tanto, come accade sempre in tutti i ricevimenti,

qualcuno più esuberante bloccava la sfilata tenendo tutti impalati, mentre s'informava se ai gemelli piacesse la cittadina,

se si sarebbero fermati a lungo, se la famiglia stava bene, e c'infilavano anche il tempo, c'era speranza che presto

rinfrescasse, e ogni sorta di cose, tutto per poter dire, una volta a casa: «Ho fatto una lunga chiacchierata con loro,» ma

nessuno disse o fece nulla di disdicevole, così che il grande evento andò in porto nel modo più decoroso e

soddisfacente.

Seguì una conversazione generale, e i gemelli si spostavano da un gruppo all'altro, chiacchierando spediti e

disinvolti, conquistandosi l'approvazione, imponendosi all'ammirazione, riscuotendo il favore di tutti. La vedova

seguiva con occhi fieri la loro ascesa trionfale, e di tanto in tanto Rowena si ripeteva con profonda soddisfazione: «E

pensare che sono nostri, tutti nostri!»

Madre e figlia non ebbero più un attimo di riposo. Domande incalzanti sui gemelli si rovesciavano

ininterrottamente nelle loro orecchie estasiate; ciascuna era al centro di un gruppo di gente che ascoltava col fiato

sospeso; ciascuna sentiva che, per la prima volta, in quel momento, coglieva il vero significato della grande parola

Gloria, e ne captava l'esaltante valore e capiva perché gli uomini di tutte le epoche erano stati disposti a buttar via

felicità di minor conto, tesori, la vita stessa per assaporare quella gioia sublime e suprema. Ora Napoleone e gli altri

come lui erano spiegati, giustificati.

Quando, alla fine, Rowena ebbe assolto ai propri doveri verso le persone che stavano in salotto, salì al piano di

sopra per soddisfare il desiderio di coloro che si erano riversati lassù, giacché il salotto non era grande abbastanza per

accogliere gli ultimi arrivati. Anche lì fu assediata dalle domande dei curiosi e di nuovo guazzò nei mari sfolgoranti

della gloria. E mentre s'appressava il meriggio, provò una fitta al cuore nel constatare che quell'episodio meraviglioso

della sua vita era giunto al termine; nulla al mondo poteva prolungarlo, nulla di simile le sarebbe mai più capitato. Ma

pazienza, era già qualcosa: la grande occasione volgeva al suo trionfante finale, e il successo era nobile e memorabile.

Se i gemelli ora avessero compiuto un qualche gesto inusitato, eccezionale, a coronare l'opera, qualcosa che

polarizzasse la più alta ammirazione della compagnia, qualcosa di simile a una scossa elettrica...

A questo punto un prodigioso clangore dilagò al piano di sotto, e tutti si precipitarono giù a vedere. Erano i

gemelli che si esibivano magistralmente al pianoforte in un pezzo a quattro mani. Rowena si sentì appagata, appagata

fin nel profondo dell'animo.

I giovani forestieri furono costretti a restare a lungo al pianoforte. I cittadini erano sorpresi e incantati dalla

bellezza dell'esecuzione, e non sopportavano l'idea che terminasse. Tutta la musica che avevano ascoltato fino allora

sembrava un piattume dilettantesco e privo di stile e di suggestione, se paragonata a questa inebriante ondata di suoni

melodici. Capirono che per una volta in vita loro stavano ascoltando dei veri maestri.

VII

Una delle più vistose differenze fra un gatto e una bugia è che il gatto ha solo nove vite.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

La compagnia si sciolse con riluttanza e si sparpagliò nelle varie case, chiacchierando vivacemente. Tutti erano

d'accordo che ci sarebbero voluti parecchi anni prima che Dawson's Landing vedesse di nuovo una giornata come

quella. Nel corso del ricevimento i gemelli avevano accettato diversi inviti, e si erano anche spontaneamente offerti di

suonare qualche duetto a una serata per dilettanti organizzata a beneficio di un locale ente assistenziale. Tutta la

migliore società era ansiosa di accoglierli nel suo grembo. Il giudice Driscoll ebbe la fortuna di monopolizzarli subito

per una passeggiata in carrozza, così da essere il primo a esibirli in pubblico. Salirono in carrozza con lui e scesero in

parata giù per la strada principale, mentre la gente si assiepava alle finestre e sui marciapiedi per vederli.

Il giudice mostrò ai forestieri il nuovo cimitero, e la prigione, e dove abitava l'uomo più ricco della città, e la

loggia massonica, e la chiesa metodista, e la chiesa presbiteriana, e il luogo dove sarebbe sorta la chiesa battista non

appena ci fossero stati i soldi per costruirla, e mostrò loro il municipio, e il mattatoio, e fece uscire la compagnia dei

pompieri in uniforme perché spegnessero un incendio immaginario. Poi fece loro ammirare i moschetti della milizia

locale, e si profuse in elogi di fronte a questi splendori, e sembrò molto soddisfatto della reazione degli ospiti perché i

gemelli ammiravano la sua ammirazione e facevano di tutto per adeguarvisi: anche se sarebbero stati tanto più entusiasti

senza le quindici o sedicimila analoghe esperienze in vari paesi, che ne avevano notevolmente deteriorato il carattere di

novità.

Il giudice si prodigò perché si svagassero, con grande spirito di ospitalità, e se qualche pecca ci fu, non fu certo

colpa sua. Raccontò un'infinità di aneddoti spiritosi dimenticando sempre il punto essenziale; ma i due erano sempre in.15

grado di fornirglielo, perché quelle tiritere erano ormai stagionate e prima d'allora i gemelli avevano già avuto parecchie

occasioni per gustarle. E parlò delle sue numerose cariche, e di come aveva coperto questo o quell'incarico onorifico o

remunerativo, e di come aveva fatto parte del foro e adesso era Presidente dei Liberi Pensatori. Disse che la Società era

stata fondata quattro anni prima e contava già due membri, e si era solidamente affermata. Avrebbe riunito i confratelli,

quella sera, se i gemelli avessero gradito presenziare a una riunione.

Così passò a prenderli, e strada facendo parlò di Wilson lo Svitato, per predisporli favorevolmente e prepararli

ad apprezzarlo. Il piano riuscì alla perfezione, e i gemelli si formarono un'ottima impressione. In seguito questa venne

confermata e consolidata quando Wilson propose che, per riguardo verso i forestieri, si accantonassero i soliti argomenti

e si dedicasse quell'ora a una conversazione su temi generici, e sul modo di coltivare l'amicizia e la socievolezza. La

proposta fu messa ai voti e approvata all'unanimità.

L'ora passò velocemente in animati conversari, e al termine il solitario e negletto Wilson si trovò arricchito di

due nuovi amici. Invitò i gemelli ad andarlo a trovare non appena si fossero liberati da un altro impegno, ed essi

accettarono con gioia.

Verso la metà della serata erano già in marcia verso casa sua. Lo Svitato li attendeva, e stava ingannando il

tempo strizzandosi il cervello su una cosa che aveva notato quella mattina. Si trattava di questo: si era alzato molto

presto - anzi, proprio all'alba - aveva attraversato l'atrio che divideva a metà la casetta, ed era entrato in una stanza a

prendere un oggetto. La finestra della stanza era senza tende, perché quel lato della casa era disabitato da molto tempo,

e attraverso i vetri vide una cosa che lo sorprese e attirò la sua attenzione. Era una giovane donna - una giovane donna

in un luogo dove non avrebbe dovuto esserci nessuna giovane donna; perché quella era la casa del giudice Driscoll, e lei

stava nella camera da letto, situata sopra lo studio privato o salotto che fosse, del giudice. Era la camera da letto di Tom

Driscoll. Lui e il giudice e la sorella vedova del giudice, la signora Pratt, e tre servi negri, erano le uniche persone che

abitavano nella casa. Chi, dunque, poteva mai essere la giovane donna? Le due case erano separate da uno spiazzo

erboso diviso nel mezzo da una staccionata, che andava dalla strada sul davanti fino al viale sul retro. Non era una gran

distanza, e Wilson riuscì a vedere benissimo la ragazza, perché le persiane della stanza erano aperte e così anche la

finestra. La ragazza indossava un vestito leggero, lindo e grazioso, a larghe righe bianche e rosa, e aveva un cappellino

munito di una veletta rosa. E si stava esercitando, a quel che sembrava, in movenze, andature, atteggiamenti diversi. Lo

faceva in modo aggraziato, ed era tutta intenta a quella sua occupazione. Chi mai poteva essere, e perché si trovava

nella camera del giovane Tom Driscoll?

Wilson si era scelto una posizione dalla quale poteva osservare la ragazza senza correre il rischio di essere

visto da lei, e rimase lì nella speranza che sollevasse la veletta e scoprisse il volto. Ma rimase deluso. Dopo una ventina

di minuti la ragazza scomparve e sebbene lui rimanesse al suo posto per più di mezz'ora, non tornò più.

Verso mezzogiorno Wilson passò dal giudice e chiacchierò con la signora Pratt del grande evento della

giornata, il ricevimento in onore dei distinti forestieri, a casa di zia Patsy Cooper. S'informò di suo nipote Tom e lei gli

disse che stava per tornare e che lo aspettava prima di notte; aggiunse che sia lei che il giudice erano soddisfatti di

sentire dalle sue lettere che si stava comportando bene e onorevolmente; alla qual cosa Wilson ammiccò fra sé e sé. Non

chiese se in casa ci fosse un'ospite, ma fece delle domande che avrebbero potuto provocare risposte rivelatrici, se la

signora Pratt avesse avuto qualche rivelazione da fare; così se ne andò tutto soddisfatto al pensiero di essere a

conoscenza di cose che accadevano in quella casa, e di cui lei era ignara. Adesso stava aspettando i gemelli e intanto si

spremeva a pensare chi potesse essere la fanciulla e come mai si trovasse nella stanza di quel giovanotto, sul far del

mattino.

VIII

La sacra passione dell'amicizia è di natura così dolce e salda e leale e duratura che può resistere tutta una vita se non le

si chiede denaro in prestito.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Considera attentamente le proporzioni delle cose. È meglio essere una giovane coccinella che un vecchio uccello del

Paradiso.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

A questo punto è indispensabile metterci alla ricerca di Roxy. All'epoca in cui fu affrancata e se ne andò a fare

la cameriera, aveva trentacinque anni. Ottenne un posto di cameriera di bordo sul battello di Cincinnati, il Grand

Mogul, che portava merci da New Orleans. Dopo due viaggi era già assuefatta e padrona del suo mestiere, e s'innamorò

della vita di bordo, avventurosa e indipendente. Poi salì di grado e divenne capocameriera. Era la prediletta degli

ufficiali e si sentiva fiera del modo gioviale e amichevole con cui la trattavano. Per otto anni aveva continuato a

lavorare su quella nave per nove mesi all'anno e, d'inverno, sul postale di Vicksburg. Ma poi si era presa i reumatismi

alle braccia e da due mesi ormai era stata costretta ad abbandonare la tinozza. Così si licenziò. Ma era ben provvista -

ricca, come si sarebbe autodefinita; perché aveva vissuto parcamente e messo in banca quattro dollari al mese, a New

Orleans, in previsione della vecchiaia..16

Diceva che «aveva infilato le scarpe a un negro scalzo per farsi mettere sotto i piedi», e che uno sbaglio così si

fa una volta sola; d'ora in poi se lavorare sodo ed economizzare potevano compiere quel miracolo, si sarebbe resa per

sempre indipendente dalla schiavitù degli uomini.

Quando il vapore toccò l'argine a New Orleans, salutò i compagni del Grand Mogul e portò a terra il suo

bagaglio. Ma dopo un'ora era già di ritorno. La banca era fallita e i suoi quattrocento dollari erano sfumati. Era povera e

senza tetto. E inoltre malandata in salute, almeno per il momento. Gli ufficiali si commossero alle sue disgrazie e fecero

una piccola colletta. Lei decise di tornare al paese natio: lì aveva degli amici fra i negri, e gli sventurati si aiutano

sempre fra loro, questo lo sapeva bene. Quegli umili compagni degli anni di gioventù non l'avrebbero lasciata morire di

fame.

Prese il piccolo battello postale al Cairo, e ora stava sulla strada di casa. Il tempo aveva cancellato la sua

amarezza contro il figlio, e poteva pensare a lui serenamente. Cacciò dalla mente il ricordo dei suoi lati peggiori e si

abbandonò alle memorie delle rare gentilezze che le aveva usato. Abbellì e indorò quelle immagini finché divennero

assai piacevoli a contemplarsi. Cominciò a desiderare, intensamente, di rivederlo. Sarebbe andata da lui, e lo avrebbe

adulato come una schiava - perché questo, ovviamente, doveva essere il suo atteggiamento - e poteva darsi che nel

frattempo lui fosse cambiato e provasse piacere a rivedere la vecchia balia da tempo dimenticata, e le facesse festa.

Sarebbe stata una cosa bellissima che le avrebbe fatto dimenticare le tribolazioni e la miseria.

La miseria! Quel pensiero le suggerì un altro sogno, un altro castello in aria: forse di tanto in tanto lui le

avrebbe regalato qualche cosuccia, magari un dollaro, una volta al mese; qualunque regalino le sarebbe stato di aiuto, di

tanto aiuto.

Quando raggiunse Dawson's Landing era la stessa di sempre; svanite le malinconie, si sentiva tutta baldanzosa.

Certo, se la sarebbe cavata; c'erano tante cucine dove i negri avrebbero volentieri diviso con lei i loro pasti, e

rubacchiato per lei zucchero e miele e altre leccornie; oppure le avrebbero dato il modo di rubacchiarle, e sarebbe

andato bene lo stesso. E poi c'era la chiesa. Roxy era più che mai una devota e fanatica metodista, e la sua non era

ipocrisia, ma fede sincera e convinta. Sì, d'ora in poi, con tante anime intorno a confortarla e il suo vecchio

inginocchiatoio nell'angolo della chiesa, sarebbe stata perfettamente felice fino alla fine dei suoi giorni. Prima di tutto si

recò nella cucina del giudice Driscoll. Lì fu ricevuta con tutti gli onori e con enorme entusiasmo. I suoi viaggi

meravigliosi, gli strani paesi che aveva visitato e le sue avventure facevano di lei un'eroina da romanzo, un oggetto di

meraviglia. I negri se ne stavano incantati ad ascoltare la storia delle sue esperienze e la interrompevano con domande,

risate, esclamazioni di gioia e di approvazione; e lei dovette confessare a se stessa che, se c'era al mondo una cosa

migliore del viaggiare sui battelli, questa cosa era la soddisfazione che se ne ricavava a parlarne. Gli astanti la

rimpinzarono di cibo, e poi depredarono la dispensa per riempirle la sporta.

Tom era a St. Louis. I servi le dissero che negli ultimi due anni aveva trascorso lì la maggior parte del tempo.

Roxy tornò ogni giorno, e parlò molto della famiglia e dei suoi affari. Una volta chiese perché Tom stesse lontano così a

lungo.

Il presunto «Chambers» disse:

«Il fatto è che il vecchio padrone se la passa meglio quando il giovane padrone sta lontano che quando sta in

città. Sì, e gli vuole anche più bene; così gli dà cinquanta dollari al mese...»

«Ma va', davvero? Chambers, non stai mica scherzando, eh?»

«Quant'è vero Dio, non scherzo, mammy. Padron Tom stesso me lo ha detto. Ma tanto non gli basta neppure

quello.»

«Oh cielo, e per che ragione non gli basta?»

«Beh, te lo dico se mi lasci parlare, mammy. La ragione è che padron Tom gioca d'azzardo.»

Roxy alzò le mani al cielo in segno di stupore, e Chambers continuò: «Il vecchio padrone l'ha scoperto perché

ha dovuto pagare duecento dollari per i debiti di gioco di padron Tom, e questa è la pura verità, mammy, sicuro come io

sono io e tu sei tu.»

«Due... duecento dollari! Ma che dici? Duecento dollari! Per la miseria, è quasi il prezzo di un discreto negro

di seconda mano. Sei sicuro che non stai a mentire, dolcezza. Non è che gli dici una bugia alla tua vecchia mammy,

vero?»

«Quant'è vero Dio, è come ti ho detto. Duecento dollari. E che non possa più fare un passo se non è vero. E

poi, oh cielo, il vecchio padrone sembrava uscito pazzo, aveva la schiuma alla bocca te lo dico io! E così ha preso e lo

ha diseredato!» E dopo aver pronunciato quella parola così importante si leccò le labbra compiaciuto. Roxy per un po'

cercò di raccapezzarcisi, poi si arrese e disse:

«Dise... che?»

«Diseredato.»

«Ma che roba è? Che significa?»

«Significa che ha stracciato il testamento.»

«Stracciato il testamento! Non può essere che l'ha fatto! Ritira tutto, miserabile imitazione di negro, partorito

con tanto dolore e tribolazione.»

Il castello di Roxy - un dollaro di tanto in tanto dalle tasche di Tom - stava crollando davanti ai suoi occhi. Non

poteva sopportarlo; non poteva neanche pensarci. La sua uscita divertì Chambers: «Ah ah ah, senti questa! Se io sono

una imitazione, tu che sei? Tutti e due siamo una imitazione di bianchi, ecco che siamo, e una buona imitazione anche.

Ah ah ah! Come imitazione di negri non siamo niente di che - e per quello che...».17

«Piantala di fare lo scemo o ti do uno schiaffone; parla del testamento. Di' che non è vero che è stato stracciato,

ti prego, dolcezza, dimmelo e non ti dimenticherò mai.»

«Beh, no... perché poi ne ha fatto un altro, e padron Tom è di nuovo sistemato. Ma perché, mammy, stai tanto a

penare? Non sono mica fatti tuoi!»

«Non sono mica fatti miei? e di chi se no, si può sapere? Non sono stata io la mamma sua fino a che ha fatto

quindici anni? Rispondi. Ti pare che devo stare a vedere che è diventato povero e solo al mondo senza sentirmi il cuore

sconsolato? Se tu eri una madre, Valet de Chambre, te lo dico io, non la dicevi una scemata così.»

«Beh, allora statti contenta, che il vecchio padrone l'ha perdonato e ha riaggiustato il testamento.»

Sì, ora era contenta e felice e commossa. Continuò a venire ogni giorno, e finalmente le dissero che Tom era

tornato a casa. Cominciò a tremare tutta per l'emozione, e gli mandò subito a dire che la sua «povera vecchia mammy

negra» lo supplicava di vederlo per poi morire di gioia.

Tom era disteso comodamente sul sofà quando Chambers gli portò l'ambasciata. Il tempo non aveva scalfito

l'antico odio per l'umile servo e protettore della sua infanzia: era ancora feroce e implacabile. Si tirò su, e guardò

severamente il bel viso del giovanotto di cui, senza saperlo, usava il nome e sfruttava i privilegi. Continuò a guardarlo

finché la vittima fu sufficientemente impallidita per il terrore, poi disse: «Che diavolo vuole da me quella vecchia

stracciona?»

La petizione fu ripetuta con umiltà.

«Chi ti ha dato il permesso di disturbarmi con le moine di una negra?»

Tom si era alzato. L'altro ora tremava visibilmente. Capì qual che stava per capitargli e piegò il capo da una

parte mentre alzava il braccio sinistro a proteggersi. Tom gli fece piovere una scarica di pugni sulla testa e sul braccio,

senza una parola. La vittima a ogni colpo supplicava: «Pietà, padron Tom! Oh, pietà, padron Tom!»

Sette colpi. Poi Tom disse: «Voltati e fila,» e lo seguì da presso con uno, due, tre robusti calci. L'ultimo

scaraventò al di là della soglia lo schiavo, il bianco autentico, che se ne andò zoppicando e asciugandosi gli occhi con la

manica vecchia e sdrucita. Tom gli urlò dietro: «Falla entrare!»

Poi si gettò ansimante sul sofà e scatarrò: «È arrivato proprio in tempo; ero pieno di rabbia fino al gozzo e non

sapevo con chi prendermela. È stato un vero sollievo! Mi sento molto meglio, ora.»

Entrò la madre di Tom, chiudendosi dietro la porta, e si avvicinò al figlio con tutte le moine e i servili

convenevoli di cui la paura e l'interesse possono improntare le parole e gli atteggiamenti di chi è nato schiavo. Si fermò

a un metro dal suo ragazzo ed emise due o tre esclamazioni ammirate per la sua alta statura e per la sua prestanza in

genere, e Tom mise un braccio sotto la testa e appoggiò la gamba sullo schienale del divano per assumere un'aria

adeguatamente indifferente.

«Cielo, dolcezza mia, quanto sei cresciuto! In fede mia mai non ti avrei riconosciuto, padron Tom! Per

davvero! Guarda bene me; la vecchia Roxy tua te la rammenti? La vecchia mammy tua, dolcezza, la riconosci? Ora sì

che posso morire in pace dopo che ti ho potuto rivedere.»

«Taglia corto... taglia corto! Che cosa vuoi?»

«Lo sentite? Sempre il solito, il padron Tom, sempre così allegro e scherzoso con la vecchia mammy sua.

Sicura ero...»

«Taglia corto, ti dico, e di' cos'è che vuoi!»

Era una grossa delusione. Per giorni e giorni Roxy aveva tanto covato e nutrito e accarezzato l'idea che Tom

sarebbe stato contento di rivedere la sua vecchia balia e l'avrebbe resa felice e fiera fin nel midollo con un palo di parole

cordiali, che non le ci vollero più di due rabbuffi per convincersi che lui non stava scherzando affatto, e che il suo bel

sogno era solo una sciocca illusione, uno sbaglio grossolano e penoso. Si sentì ferita nel vivo e così umiliata che per un

attimo non seppe che dire e che fare. Poi il petto cominciò a sollevarsi, le lacrime a sgorgare, e nella sua desolazione

provò l'impulso di ricorrere all'altro suo sogno, l'appello alla generosità del suo ragazzo; e così, d'istinto e senza

riflettere, gli sciorinò la supplica:

«Oh padron Tom, la povera vecchia mammy tua di questi tempi è così sfortunata; nelle braccia sta mezza

impedita; non può lavorare; e se tu gli puoi dare un dollaro... sì, solo un piccolo doll...»

Tom balzò in piedi così bruscamente che la supplice sobbalzò anche lei.

«Un dollaro! Darti un dollaro! Vorrei strangolarti piuttosto! È questa la ragione della tua visita? Fuori, e

subito!»

Roxy indietreggiò lentamente fino alla porta, ma a metà strada si fermò e disse in tono lamentoso: «Padron

Tom, quando stavi in fasce ti ho allattato, e da sola ti ho tirato su fin quando sei stato quasi un giovanotto; e ora che sei

giovane e ricco e io povera e mezza vecchia, e vengo qui e mi credo che tu la povera vecchia mammy tua vuoi aiutare

per i giorni che gli restano da campare, e...»

Tom gradì questa solfa ancor meno di quella che l'aveva preceduta perché gli andava risvegliando un'eco nella

coscienza; così l'interruppe e disse, in tono deciso ma senza asprezza, che non era in grado di aiutarla e non aveva

intenzione di farlo.

«Allora mai non mi aiuterai, padron Tom?»

«No! E adesso vattene e non mi seccare più.»

Roxy aveva chinato il capo in atteggiamento di umiltà, ma adesso il ricordo di tutti i torti subiti tornò a

divamparle nel petto, ardendo furiosamente. Sollevò lentamente il capo, mentre il suo corpo maestoso assumeva

inconsciamente una posa fiera e imperiosa che aveva in sé tutta la maestà e la grazia della giovinezza svanita. Sollevò.18

un dito e con esso sottolineò ogni parola: «L'hai detta la tua. La tua occasione l'hai avuta e sotto i piedi te la sei ficcata.

Quando un'altra ti si presenta, in ginocchio ti dovrai buttare, e dovrai supplicare!»

Tom si senti agghiacciare il cuore, neanche lui sapeva perché; non rifletté che a produrre tale effetto era la

stessa incongruenza della situazione: quelle parole, pronunciate con tanta solennità, da quella persona. Comunque fece

quello che era naturale che facesse: rispose con arroganza e con scherno.

«Tu, darmi un'occasione... tu! Forse dovrei mettermi in ginocchio subito! Ma nel caso che non lo faccia, tanto

per curiosità, che cosa dovrebbe succedermi, secondo te?»

«Ecco quello che ti succede, che da tuo zio vado dritta e gli ripeto tutto quello che so sul conto tuo.»

Tom impallidì, e lei se ne accorse. Pensieri inquietanti cominciarono a rincorrersi nel cervello del giovane:

«Come può saperlo? Eppure deve averlo scoperto: ne ha tutta l'aria. Ho riavuto il testamento da tre mesi, e sono di

nuovo pieno di debiti e sto facendo mari e monti per coprirmi dallo scandalo e dalla rovina, con una ragionevole

speranza di farla franca, se mi lasciano in pace. E ora questa maledetta ha trovato la maniera di scoprire tutto. Chissà

fino a che punto è informata? Oh oh oh, ce n'è abbastanza da spezzarti il cuore! Ma devo fingere di assecondarla... non

c'è altro scampo.»

Poi abbozzò la brutta copia di un'allegra risata e, con una sorta di scialba gaiezza, esclamò:

«Bene bene bene, Roxy cara. Due vecchi amici come noi non devono litigare. Eccoti il tuo dollaro. E adesso

dimmi quello che sai.»

Tirò fuori un «verdone»; Roxy rimase dov'era, senza scomporsi. Toccava a lei adesso, farsi beffe delle sue

sciocche lusinghe, e non si lasciò sfuggire l'occasione. Disse, con una torva implacabilità nella voce e nei modi che

fecero sospettare a Tom come perfino una ex-schiava possa ricordarsi, per dieci minuti, degli insulti e delle ingiurie

ricevuti in cambio di complimenti e adulazioni, e possa anche conoscere il piacere di vendicarsi, quando se ne offre

l'opportunità.

«Che cos'è che so? Te lo dico io, che cos'è che so. Abbastanza ne so che in mille pezzi quel tuo testamento può

andare a finire... e anche di più, bada, anche di più!»

Tom era esterrefatto.

«Di più?» disse. «Che cosa significa di più? C'è forse posto per dell'altro?»

Roxy se ne uscì in una risata di scherno, buttò il capo all'indietro e, le mani sui fianchi, disse beffardamente:

«Ah, così vorresti saperlo, tu col tuo miserabile straccio di dollaro. Perché proprio a te dovrei dirlo? I soldi non ce li hai.

Lo dirò a tuo zio - e subito anche - e lui cinque dollari mi darà per la notizia, e sarà pure contento.»

Si voltò con fare sdegnoso e fece le mosse di andarsene. Tom fu preso dal panico. L'afferrò per la gonna e

l'implorò di aspettare. Lei si voltò e disse altezzosamente:

«Eccoti lì, che t'avevo detto?»

«Tu, tu... non ricordo più. Che cosa m'avevi detto?»

«T'avevo detto che alla prima occasione ti buttavi in ginocchio e mi supplicavi.»

Per un attimo Tom rimase interdetto. Ansimava per l'emozione. Poi disse:

«Oh, Roxy, non vorrai mica che il tuo giovane padrone faccia una cosa tanto orribile! Non dici sul serio!»

«Subito te lo faccio vedere se dico sul serio o no! Prima m'insulti e mi sputi addosso quando vengo qui,

miserabile, abbandonata e sconsolata, e ti parlo di quando ti allattavo e ti accudivo e ti curavo quando stavi malato e

un'altra mamma non tenevi che me al mondo; e ti supplico di dare alla povera vecchia negra un dollaro per procurarsi

qualche cosa da mangiare, e tu giù a insultare, giù a insultare. Che vergogna! Sissignore, un'altra occasione sì che te la

posso dare, e adesso te la posso dare, e hai solo mezzo secondo per decidere... mi senti?»

Tom si buttò in ginocchio e cominciò a supplicare dicendo:

«Lo vedi che ti supplico, e in tutta onestà! Ora parla, Roxy, parla!»

L'erede di due secoli d'insulti e di oltraggi impuniti lo guardò dall'alto come degustando a grosse sorsate quella

soddisfazione. Poi disse:

«Che bello vedere un giovanotto bianco che si sta a inchinare davanti a una vecchia negra! Era una cosa che

volevo vedere almeno una volta prima che mi chiamavano a morire. E ora, soffia pure nella tua tromba, Gabriele,

perché io sono pronta... Alzati!»

Tom si alzò. Disse umilmente:

«Su, Roxy, non mi punire oltre. Ho meritato quello che ho avuto, ma sii buona e assolvimi. Non andare dallo

zio. Dillo a me... ti darò io i cinque dollari.»

«Sì, sto sicura che per dare me li dai, e neanche ti fermerai lì. Ma non te lo dico qui...»

«No, per carità!»

«Hai paura della casa stregata?»

«N...no.»

«E allora alla casa stregata fatti trovare fra le dieci e le undici di stasera. E devi salire per la scala a pioli perché

l'altra scala sta tutta sfasciata, e mi troverai là. Nella casa stregata mi sono fatta una cuccia, perché non tengo un altro

posto dove stare.» Si avviò verso la porta, ma si fermò e disse: «Mi devi dare il dollaro!» Lui glielo dette. Lei lo

esaminò e disse: «Mmm... Non mi faccio meraviglia se la banca è fallita.» Si mosse di nuovo, e si fermò un'altra volta:

«Whisky ce n'hai?»

«Sì, un po'!»

«Prendilo, dai.».19

Lui corse nella sua stanza al piano di sopra e portò giù una bottiglia piena per due terzi. Lei la sollevò e bevve

una sorsata. Gli occhi le splendevano di soddisfazione e si ficcò la bottiglia sotto lo scialle dicendo: «È roba fina, me la

piglio.»

Umilmente Tom le tenne aperta la porta, e lei uscì con passo marziale, torva ed eretta come un granatiere.

IX

Perché ci rallegriamo a una nascita e ci addoloriamo a un funerale? Perché non siamo noi la persona in questione.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

È facile trovare dei difetti quando ci si è portati. C'era una volta un uomo che non riuscendo a trovare altro difetto al

carbone, si lamentava che contenesse troppi rospi preistorici.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Tom si buttò sul sofà, si prese tra le mani la testa che gli scoppiava e appoggiò i gomiti sulle ginocchia,

dondolandosi avanti e indietro e gemendo:

«Mi sono inginocchiato davanti a una sporca negra!» borbottava. «Credevo di aver già raggiunto il massimo

della degradazione, ma, oddio, quello era niente al confronto... Beh, mi rimane una sola consolazione: questa volta ho

toccato il fondo e non posso andare più giù di così.»

Ma era una deduzione affrettata.

Quella sera alle dieci saliva la scala a pioli nella casa stregata, pallido, debole, disperato. Roxy lo aveva sentito

e stava in piedi sulla porta di una stanza.

Era una casa di tronchi d'albero a due piani, che due anni prima aveva acquistato fama di essere abitata dagli

spiriti e da allora era caduta in disuso. Nessuno aveva più voluto abitarla, né avvicinarcisi di notte, e molti giravano al

largo anche di giorno. In assenza di «concorrenti», fu chiamata la casa stregata. Era instabile e pericolante per il lungo

abbandono. Distava dalla casa di Wilson lo Svitato trecento metri, occupati soltanto da uno spiazzo deserto. Era l'ultima

casa della cittadina, da quel lato.

Tom seguì Roxy nella stanza. In un angolo c'era un mucchio di paglia pulita che le serviva da letto e, appesi al

muro, alcuni indumenti modesti ma ben tenuti; una lanterna di latta punteggiava di piccoli punti luminosi il pavimento,

e parecchie cassette da sapone e da candele, tutt'intorno, servivano da sedie. I due sedettero. Roxy disse:

«Ebbene, comincio subito, e poi mi piglio i dollari; fretta non la teniamo. Che ti credi che ti sto per dire?»

«Beh... tu... tu... oh, Roxy, non farmela troppo difficile! Parla, e dimmi in quale modo hai scoperto la

situazione tragica in cui mi trovo a causa della mia dissolutezza e della mia stoltezza.»

«Dissolutezza e stoltezza? Nossignore, tutto questo non conta niente rispetto a quello che tengo in mente.»

Tom la guardò e disse:

«Ma come, Roxy, che vuoi dire?»

Lei si alzò, incombendo su di lui come il Fato.

«Questo voglio dire, ed è la sacrosanta verità. Tu non sei del sangue di padron Driscoll più che non lo sono io!

Ecco quello che voglio dire!» e i suoi occhi lampeggiarono di trionfo.

«Cosa?»

«Sissignore sissignore, e mica è tutto qua! Tu un negro sei! Nato negro e schiavo per di più! E un negro sei,

ora come ora, e schiavo pure; e se apro bocca io, il vecchio padron Driscoll ti vende giù al fiume prima che invecchi di

altri due giorni.»

«È una bugia, vecchia cialtrona, una bugia colossale.»

«Non è una bugia proprio per niente. È la verità e niente altro che la verità, tant'è vero Dio. Sissignore... tu mio

figlio sei.»

«Demonio!»

«E quel povero ragazzo che hai preso a calci e pugni, è il figlio di Percy Driscoll, è il padrone tuo...»

«Mostro!»

«E il nome suo è Tom Driscoll, e il tuo è Valet de Chambers, e tu il cognome non ce l'hai perché i negri non ce

l'hanno.»

Tom con un balzo afferrò un ceppo e lo sollevò in alto; ma sua madre si limitò a ridere e disse:

«Statti seduto, stupido! Credi che mi metto spavento? Non è né da te né da quelli come te, piuttosto mi spari

alla schiena, se ti viene l'occasione, perché questo è quello che sai fare. Io ti conosco bene fino in fondo... Ma a me non

me ne importa niente se mi levi dal mondo, perché tutto quello che ti sto dicendo sta scritto chiaro e tondo sulla carta, e

in mani sicure sta custodito, e la persona che lo tiene sa chi è l'uomo da ricercare quando viene a sapere che sono morta.

Poveretto, se ti credi che tua madre è una sciocca come te, ti sbagli di grosso, lasciatelo dire! Perciò statti seduto e

portati come si deve, e non ti alzare finché non te lo senti comandare!»

Per un po' Tom si agitò e si contorse in un turbine di sensazioni e di emozioni contrastanti. Alla fine disse, con

tono che sembrava convinto:.20

«È tutta una fandonia; va' pure a far danni come ti pare; con te ho chiuso.»

Roxy non rispose. Prese la lanterna e si avviò alla porta. Immediatamente Tom fu invaso dal timor panico.

«Torna indietro, torna indietro!» gemeva. «Non volevo, Roxy; mi rimangio tutto e non lo dirò mai più. Ti

prego, torna indietro, Roxy!»

La donna si arrestò per un attimo, poi disse in tono grave:

«C'è una cosa che te la devi smettere di fare, Valet de Chambers; ed è che mi chiami Roxy, da pari a pari. Non

è così che i figli devono parlare alle loro madri. Ma' o mammy mi devi chiamare, ecco come mi devi chiamare, s'intende

quando non c'è nessuno che sente. Dillo!»

Costò una gran fatica a Tom, ma poi lo cacciò fuori.

«Così sta bene. Non te lo scordare mai più, altrimenti... e prometti che mai più chiamerai le mie parole bugie e

fandonie. Bada, ti voglio avvertire: un'altra volta che te lo sento dire è pure l'ultima. Me ne vado di filato dal giudice e

gli racconto chi sei e gli porto le prove. Ci credi a quello che ti dico?»

«Oh,» gemette Tom. «Non solo ci credo ma lo so.»

Roxy capì che l'opera era compiuta. Non avrebbe mai potuto provare nulla, e la minaccia della carta scritta era

una bugia; ma sapeva con chi aveva a che fare, e aveva fatto quelle due dichiarazioni senza dubitare minimamente

dell'effetto che avrebbero sortito.

Andò a sedere sulla cassetta da candele che la fiera, trionfante maestà del suo atteggiamento parve trasformare

in un trono. Disse:

«Dunque, Chambers, adesso di affari dobbiamo parlare, e senza tante stupidaggini. Prima di tutto, tu intaschi

cinquanta dollari al mese; la metà la molli a mammy tua. Tirali fuori!»

Ma Tom possedeva in tutto sei dollari. Glieli dette e promise che a cominciare dalla prossima mesata

avrebbero fatto a metà.

«Chambers, quanti sono i debiti che tieni?»

Tom rabbrividì e disse:

«Circa trecento dollari.»

«E come pensi che li puoi pagare?»

Tom gemette forte: a Oh non lo so, non mi fare queste domande terribili.»

Ma lei tenne duro finché non gli estorse una confessione: era andato in giro travestito, rubando piccoli oggetti

di valore da varie abitazioni private; e proprio una quindicina di giorni prima aveva fatto razzia in parecchie case dei

compaesani, mentre tutti credevano che fosse a St. Louis; ma non era sicuro di aver pareggiato il conto e aveva paura di

avventurarsi di nuovo, con tutto il fermento che c'era in città. Sua madre approvò la sua condotta e si offrì di aiutarlo,

ma lui si spaventò. Tremebondo, si arrischiò a dire che se lei se ne fosse andata dalla città, si sarebbe sentito meglio e

più al sicuro, e avrebbe potuto tenere la testa alta; e stava continuando su questo tono quando lei lo interruppe, e gli

disse, lasciandolo gradevolmente sorpreso, che era pronta, che non le importava niente dove viveva, purché percepisse

regolarmente la sua parte di mesata. Disse che non sarebbe andata lontano e sarebbe tornata una volta al mese alla casa

stregata per prendere il denaro. Poi aggiunse:

«Non ti odio troppo ora, ma per anni e anni t'ho odiato, sarebbe successo a tutti. Avevo fatto quello scambio

per dare a te una buona famiglia e un nome buono e farti diventare un signore bianco ricco e benvestito... e che cosa ci

ho ricavato? Tu in continuazione mi disprezzavi e non facevi che insultarmi davanti a tutti e non mi facevi mai

dimenticare di essere una negra... e...»

Scoppiò in singhiozzi e s'interruppe. Tom disse:

«Ma lo sai bene che io non lo sapevo che eri mia madre, e poi...»

«Beh, lasciamo perdere adesso; lasciamo perdere. Me lo levo dalla mente.» Poi aggiunse minacciosa: «E fa' in

modo che non me lo ricordo mai, o te ne pentirai, te lo dico io.»

Quando stavano per separarsi Tom disse, col tono più convincente di cui era capace:

«Ma', ti dispiacerebbe dirmi chi è mio padre?»

Credeva di farle una domanda imbarazzante, ma si sbagliava. Roxy si drizzò con un fiero moto del capo e

rispose:

«Se mi dispiace? Affatto! Non hai nessuna ragione di provare vergogna di tuo padre, te lo assicuro. Veniva da

una delle famiglie più illustri della città: vecchia Virginia, una delle famiglie più signore. Sì, della stessa razza dei

Driscoll e degli Howard dei tempi migliori.»

Con aria se possibile ancora più fiera, aggiunse solennemente:

«Te lo ricordi il colonnello Cecil Burleigh Essex, che è morto lo stesso anno del papà del tuo padroncino Tom

Driscoll, e tutti i massoni e tutte le congregazioni e le chiese si sono messe insieme e gli hanno fatto il funerale più

grande che s'era mai visto in questa città? Era lui.»

L'orgoglio che ispirava le sue parole, sembrava averle ridato la perduta grazia degli anni giovanili; il suo

portamento prese una dignità e una maestosità che si sarebbero potute dire regali se lo scenario fosse stato un po' più

all'altezza della situazione.

«Non ci sta un altro negro in città che è aristocratico come lo sei tu. E adesso va! Sì, tieni pure la testa alta

quanto ti pare, il diritto ce l'hai, questo posso giurartelo.»

X.21

Tutti dicono «Che disgrazia dover morire»: strana lagnanza da parte di gente che ha dovuto vivere.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Quando sei in collera, conta fino a quattro; quando sei molto in collera, lancia un moccolo.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

A letto, quella notte, Tom si svegliò parecchie volte di soprassalto, e ogni volta il suo primo pensiero era: «Oh,

che gioia, è tutto un sogno!» Poi ricadeva giù pesantemente con un gemito, e borbottava: «Un negro! sono un negro! oh,

vorrei essere morto!»

Si svegliò all'alba con un crescente senso di orrore e decise di non cedere più a quel sonno traditore. Si mise a

pensare. Ed erano pensieri molto amari. Seguivano press'a poco questo schema:

«Perché c'erano negri e bianchi? Quale delitto aveva commesso il primo negro, prima di nascere, perché alla

nascita gli fosse decretata quella condanna? E perché si fa questa tremenda distinzione fra bianchi e neri?... Come

sembra duro il destino di un negro questa mattina! Eppure, soltanto ieri, questo pensiero non mi passava per la testa.»

Sospirò e mugolò per più di un'ora. Poi «Chambers» entrò a dirgli umilmente che la colazione era quasi pronta.

«Tom» si fece di fiamma alla vista di quel giovane bianco aristocratico che si umiliava di fronte a lui, un negro, e lo

chiamava a Padroncino». Disse bruscamente:

«Sparisci dai miei occhi!» E quando il giovane se ne fu andato, borbottò: a Non mi ha fatto alcun male, povero

disgraziato, ma per me rappresenta un incubo adesso, perché lui è Driscoll, il giovane gentiluomo, e io sono... oh, vorrei

essere morto!»

Una gigantesca eruzione, come quella del Krakatoa, alcuni anni addietro, accompagnata da terremoti,

maremoti e nubi di cenere vulcanica, cambia la faccia del paesaggio circostante, fino a renderlo irriconoscibile,

sprofondando le terre alte, e sollevando quelle basse, formando bei laghi dove c'era stato il deserto, e deserti dove

avevano sorriso verdi praterie. La tremenda catastrofe che si era abbattuta su Tom aveva mutato il suo paesaggio morale

press'a poco allo stesso modo. Alcune zone basse se le ritrovava elevate a ideali, e alcuni ideali erano finiti a valle, e lì

giacevano col saio e la testa cosparsa di cenere e zolfo.

Per giorni e giorni vagabondò per luoghi solitari, pensando, pensando, pensando, cercando di raccapezzarcisi.

Era un'esperienza nuova. Se incontrava un amico, scopriva che le abitudini di tutta una vita erano misteriosamente

sparite. Il braccio gli pendeva giù senza vita, invece di tendersi automaticamente per una stretta di mano. Il a negro» che

era in lui rivendicava la propria umiltà, e lui ne arrossiva e se ne vergognava. Il «negro» che era in lui si meravigliava

quando l'amico bianco tendeva la mano a stringere la sua. Il «negro» che era in lui dava il passo, automaticamente, sul

marciapiede, all'attaccabrighe e allo sfaccendato. Quando Rowena, la persona più cara al suo cuore, l'idolo della sua

segreta adorazione, lo invitò a entrare, il «negro» si scusò imbarazzato, timoroso di varcare la soglia e sedersi nel

consesso dei temutissimi bianchi. Il «negro» che era in lui se ne andava qua e là, chiuso in se stesso e immusonito,

credendo di leggere in ogni viso, tono e gesto, il sospetto e forse la scoperta della verità. La condotta di Tom era

talmente atipica insolita e strana che la gente la notò, e al suo passaggio si voltava a guardarlo; e quando lui a sua volta

si girava - cosa che, nonostante tutti gli sforzi, non riusciva a evitare - e coglieva l'espressione incuriosita della persona,

ne provava una specie di nausea, e si dileguava il più velocemente possibile. A volte aveva l'aria di un animale braccato,

si sentiva braccato, e allora fuggiva verso le colline e la solitudine. Si ripeteva che sul suo capo pesava la maledizione di

Cam. E c'era il terrore dei pasti, quando il «negro» si vergognava di sedere alla tavola dei bianchi e temeva di venire

scoperto. Una volta il giudice Driscoll disse: «Che ti succede? Mi sembri mansueto come un negro,» e Tom provò la

stessa sensazione che si dice provi l'assassino quando «l'accusatore» lo smaschera dichiarando: «Ecco il colpevole!» Il

giovane disse di non sentirsi bene e lasciò la tavola.

Le premure e le moine della sua presunta «zia» erano diventate un incubo e le evitava.

E intanto gli cresceva dentro l'odio per il suo presunto «zio» perché si diceva: «Lui è bianco, e io sono il suo

schiavo, la sua proprietà, un suo bene, e può vendermi come venderebbe il suo cane.»

Per tutta una settimana Tom pensò che il proprio carattere avesse subito un cambiamento radicale. Ma non

conosceva bene se stesso. Per molti versi le sue idee erano completamente mutate, e non sarebbero mai più state le

stesse. Ma la struttura di base del suo carattere non era né poteva essere diversa. Si era modificata sotto due o tre aspetti,

e col tempo, all'occasione, se ne sarebbero visti gli effetti: effetti di assai grave natura Sotto l'influenza di questo grande

sconvolgimento mentale e morale la sua personalità e le sue abitudini mostravano esteriormente segni di un completo

mutamento, ma dopo qualche tempo, calmatasi la tempesta, cominciarono a ricomporsi nel modo di sempre. A poco a

poco ricadde negli antichi, frivoli, vacui modi di pensiero e di linguaggio, e neppure i più intimi avrebbero potuto

scorgere in lui qualcosa che lo differenziasse dal Tom debole e menefreghista dei giorni andati.

La razzia che aveva perpetrato nel villaggio fruttò meglio di quanto avesse sperato. Gli procurò la somma

necessaria per pagare i debiti di gioco evitandogli di essere smascherato dallo zio e di essere diseredato un'altra volta.

Lui e sua madre cominciarono a simpatizzare. Roxy non poteva amarlo, perché non valeva «niente di niente», come lei

stessa diceva; ma la sua natura reclamava qualcosa o qualcuno su cui esercitare la propria autorità, e lui era pur meglio

di niente. Il carattere forte di lei, i suoi modi aggressivi e imperiosi suscitavano l'ammirazione di Tom anche se gli.22

esempi che gli si offrivano erano un po' troppo frequenti per i suoi gusti. Comunque, in linea di massima, la

conversazione di Roxy era piena dei pettegolezzi tipici della sua razza sulle famiglie più in vista della città (li andava

raccogliendo nelle cucine ogni volta che tornava a Dawson's Landing) e Tom ci si divertiva. Era una cosa che gli

piaceva. Lei ritirava puntualmente la sua metà della mesata, e per l'occasione lui si trovava sempre nella casa stregata

per scambiare quattro chiacchiere. Di tanto in tanto lei andava a trovarlo al solito posto, anche fra un pagamento e l'altro

Ogni tanto Tom faceva una corsa a St. Louis per qualche settimana, e così cedette di nuovo alla tentazione.

Vinse molto denaro, ma lo perse - e anche molto di più - ma promise di trovarlo al più presto.

Così progettò un altro furto nel villaggio. Non voleva operare in altri posti perché temeva di avventurarsi in

case di cui non conosceva l'entrata né l'uscita, né le abitudini degli abitanti. Arrivò travestito alla casa stregata, il

mercoledì precedente l'arrivo dei gemelli - dopo aver scritto alla zia Trapp che non sarebbe stato di ritorno prima di due

giorni - e se ne rimase nascosto lì con sua madre fin verso l'alba di venerdì, quando andò a casa dello zio ed entrò dalla

porta sul retro, usando la propria chiave, e sgusciò in camera sua, dove poteva servirsi dello specchio e degli articoli da

toletta. Portava in un fagotto un corredo di abiti femminili e indosso un vestito della madre, con guanti neri e velo da

lutto. All'alba era pronto per il colpo, ma cols e lo sguardo di Wilson lo Svitato alla finestra, dall'altra parte della strada,

e capì che lo Svitato lo aveva visto. Così, per un po', intrattenne Wilson con una pantomima di mossette e pose affettate,

poi sparì dalla vista e si rimise l'altro travestimento, e poco dopo scese, e uscendo dalla porta sul retro si avviò verso il

villaggio per passare in ricognizione i luoghi che intendeva saccheggiare.

Ma si sentiva a disagio. Si era rimesso il vestito di Roxy, e per completare il travestimento camminava con le

spalle curve come una vecchia, così che Wilson, se per caso fosse sempre a spiare, non si sarebbe occupato di un'umile

vecchia che usciva dalla casa vicina dalla porta posteriore, di mattina presto. Ma supponendo che Wilson lo avesse visto

uscire, e avesse considerato la cosa sospetta e lo avesse seguito? Il solo pensiero gli fece gelare il sangue. Rinunciò

all'idea del furto, per quel giorno, e corse alla casa stregata per le vie più deserte che conosceva. La madre se n'era

andata; ma più tardi tornò con la notizia del ricevimento da Patsy Cooper, e lo persuase che quella era un'occasione

mandatagli dalla Provvidenza, tanto era invitante e perfetta. Così se ne andò a far razzia e ne ricavò un bel bottino,

mentre tutti stavano da Patsy Cooper. Il successo gli dette coraggio, anzi una vera e propria spavalderia, per cui, dopo

aver consegnato il malloppo alla madre, in una stradetta nascosta, andò anche lui al ricevimento e aggiunse al bottino

precedente parecchi oggetti di valore asportati in quella casa.

Dopo questa lunga digressione eccoci di nuovo al punto in cui Wilson lo Svitato, mentre attendeva l'arrivo dei

gemelli quella stessa sera di venerdì, si era seduto a meditare sulla strana apparizione del mattino: una ragazza nella

camera da letto del giovane Tom Driscoll; ci pensò e ripensò e ci si arrovellò domandandosi chi potesse essere quella

sfacciata.

XI

Ci sono tre modi infallibili per far cosa gradita a un autore; tutti e tre formano un crescendo di complimenti: 1. dirgli

che avete letto uno dei suoi libri; 2. dirgli che avete letto tutti i suoi libri; 3. chiedergli di farvi leggere il manoscritto del

suo prossimo libro. Il n. 1 vi assicura il suo rispetto; il n. 2 vi assicura la sua ammirazione; il n. 3 vi assicura un posto

nel suo cuore.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Uso dell'aggettivo: se sei in dubbio, cancellalo.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

I gemelli arrivarono, e cominciò la conversazione che si svolse in modo sciolto e affabile, e in quel clima la

nuova amicizia acquistò forza e disinvoltura. Wilson, su richiesta, tirò fuori il Calendario, e ne lesse uno o due passaggi

che i gemelli lodarono con viva cordialità. L'autore ne fu molto compiaciuto e quando essi gli chiesero di prestar loro

qualche foglio da leggere a casa, li accontentò di buon grado. Nel corso dei loro numerosi viaggi i gemelli avevano

scoperto che ci sono tre modi sicuri per far cosa gradita a un autore e ora mettevano in atto il migliore dei tre.

Ad un certo punto ci fu un'interruzione. Il giovane Tom Driscol1 venne ad unirsi alla compagnia. Quando i due

distinti forestieri si alzarono per stringergli la mano, Tom fece mostra di vederli per la prima volta; ma era una finzione,

perché aveva già avuto modo di dargli una occhiata al ricevimento, mentre saccheggiava la casa. I gemelli annotarono

mentalmente che Tom aveva un viso liscio e piuttosto bello e un portamento disinvolto e flessuoso: anzi, aggraziato.

Angelo pensò che aveva un bello sguardo; Luigi pensò che in esso ci fosse qualcosa di ambiguo; Angelo pensò che il

suo modo di parlare era gradevole e disinvolto; Luigi pensò che era più disinvolto che gradevole. Angelo pensò che era

un giovanotto simpatico; Luigi rimandò ogni giudizio in proposito. Il primo contributo di Tom alla conversazione fu

una domanda che Wilson si era sentito porre un centinaio di volte. Era una domanda fatta in tono allegro e bonario, e

che sempre gl'infliggeva una piccola fitta, perché risvegliava una ferita segreta. Ma questa volta la fitta fu più acuta,

perché erano presenti dei forestieri. «E allora, come va lo studio legale? Hai avuto qualche causa?»

Wilson si morse il labbro, ma rispose: «No, non ancora,» con tutta l'indifferenza di cui era capace. Il giudice

Driscoll aveva magnanimamente omesso dalla biografia di Wilson, presentata ai gemelli, la faccenda della laurea in.23

legge. Il giovane Tom rise amabilmente e disse:

«Wilson è avvocato, signori, ma per il momento non esercita.» Quel sarcasmo ferì Wilson, ma si controllò e

disse, pacatamente: «Non esercito, è vero. Ed è vero che non ho mai avuto una causa e mi sono guadagnato da vivere

modestamente, per vent'anni, facendo il contabile in una cittadina dove non ci sono tanti libri mastri quanti vorrei. Ma è

anche vero che mi sono preparato coscienziosamente alla pratica legale. Alla tua età, Tom, mi ero scelto una

professione ed ero in grado di esercitarla.» Tom fece una smorfia. «Purtroppo non mi si è mai presentata l'occasione di

cimentarmi, e forse non l'avrò mai; tuttavia, se mai mi si presenterà, mi troverà pronto, perché per tutti questi anni ho

continuato i miei studi.»

«Bravo, questa sì che si chiama grinta! Mi piacerebbe vederti all'opera. Ho intenzione di metterti in mano tutti

i miei affari. I miei affari e il tuo studio legale farebbero una bella coppia, Dave,» e il giovanotto rise di nuovo.

«Se mi metterai...» Wilson pensava alla ragazza nella camera di Tom e stava per dire: «Se mi metterai in mano

la parte clandestina e losca dei tuoi affari, ne potrebbe venir fuori qualcosa.» Ma ci ripensò e disse: «Comunque, questo

argomento è fuori luogo in una conversazione generale.»

«Benissimo, cambiamolo; ho idea che stavi per darmi un'altra punzecchiata; perciò sono più che disposto a

parlar d'altro. Del tuo Gran Mistero, per esempio. Come va di questi tempi? Già, perché Wilson ha in mente di

accaparrarsi tutti i vetri trasparenti e di decorarli con impronte di grasso, e di arricchirsi vendendoli, a prezzi esorbitanti,

alle teste coronate d'Europa perché li espongano nei loro palazzi. Valli a prendere, Dave.»

Wilson prese tre dei suoi vetrini, e disse:

«Ecco, la persona si passa le dita della mano destra tra i capelli, perché vi si formi un leggero strato di grasso

naturale, poi preme i polpastrelli sul vetro. Ne risulta un'impronta sottile e delicata delle linee della pelle, che non si

altera a meno che non venga a contatto con qualcosa che la cancelli. Comincia tu, Tom.»

«Perché? Mi pare che hai già preso le mie impronte più di una volta.»

«Sì, ma l'ultima volta eri ancora un bambino, avevi solo dodici anni.»

«Davvero? Beh, certo, da allora sono completamente cambiato; e le teste coronate esigono la varietà,

immagino.»

Si passò le dita tra i capelli corti e folti e le premette, una dopo l'altra, sul vetro. Angelo mise le impronte delle

sue dita su un altro vetrino e Luigi su un terzo. Wilson contrassegnò i vetrini coi nomi e la data, e li ripose. Tom fece

un'altra delle sue risatine e disse:

«Non volevo dir niente, ma se è la varietà che cerchi, hai sprecato un pezzo di vetro. Le impronte di un

gemello sono uguali a quelle dell'altro.»

«Beh, ora è fatta, e in ogni caso mi piace averle tutte e due,» disse Wilson, sedendosi di nuovo al suo posto.

«Ma senti, Dave,» disse Tom, «una volta avevi l'abitudine di predire il futuro alla gente, quando gli prendevi le

impronte. Dave è un genio in tutti i campi, un genio di prim'ordine, signori; un grande scienziato che sta andando in

malora in questo villaggio, un profeta, degno di tutti gli onori che generalmente ricevono i profeti in patria... perché qui

non gli darebbero un soldo per la sua scienza, e parlano del suo cranio come di una fabbrica di idee bislacche... Eh,

Dave, non è così? Ma non importa; un giorno o l'altro lascerà la sua impronta - impronta digitale, voglio dire, eh eh eh!

Ma a parte gli scherzi, dovreste farvi dare un'occhiata alla mano, è una cosa che vale il doppio del biglietto d'ingresso, o

vi sarà restituito il denaro all'uscita. Vedrete, leggerà tutte le pieghe della mano come se leggesse un libro, e non solo vi

dirà una cinquantina di cose che vi capiteranno, ma anche altre cinquantamila che non vi capiteranno. Andiamo, Dave,

mostra ai signori che pozzo di scienza abbiamo in questa città, senza che ce ne rendiamo conto.»

Wilson fece una smorfia a queste beffe pungenti e tutt'altro che cortesi, e i gemelli soffrirono per lui e con lui.

Ritennero giustamente che il modo migliore per venirgli in aiuto era quello di prendere la cosa sul serio e trattarla con

rispetto, ignorando l'ostentata presa in giro di Tom. Così Luigi disse:

«Abbiamo avuto modo d'incontrare dei chiromanti, durante le nostre peregrinazioni, e sappiamo benissimo che

cose meravigliose sanno fare. Se la loro non è una scienza, e una delle maggiori anche, non saprei che altro nome dargli.

In Oriente...»

Tom sembrò sorpreso e incredulo. Disse: «Quella cialtroneria una scienza? Non dirà sul serio!»

«Sì, assolutamente. Quattro anni fa ci hanno letto la mano come se fosse un foglio stampato.»

«Vuol dire che c'era del vero in quello che vi hanno detto?» chiese Tom mentre la sua incredulità cominciava

un poco a vacillare.

«Precisamente,» disse Angelo. «Anzitutto quello che ci dissero sui nostri caratteri era minuziosamente esatto:

noi stessi non avremmo potuto fare di meglio. Inoltre ci parlarono di due o tre fatti memorabili che ci erano

effettivamente accaduti: fatti di cui nessuno dei presenti, ad eccezione di noi, poteva essere a conoscenza.»

«Ma questa è stregoneria bella e buona!» esclamò Tom, che si stava vivamente interessando alla cosa. a E

come se la cavarono riguardo a quello che vi sarebbe accaduto nel futuro?»

«Grosso modo, piuttosto bene,» disse Luigi. «Due o tre cose importanti che ci furono predette si sono avverate;

la più importante di tutte, poi, addirittura nel corso di quello stesso anno. Delle predizioni minori, alcune Si sono

avverate; altre, minori o maggiori, non ancora, ma c'è sempre tempo; e infatti mi stupirei di più se non si verificassero

che se di fatto accadessero.»

Tom si era fatto serio, ed era molto impressionato. Disse, in tono di scusa:

«Dave, non avevo intenzione di farmi beffe di quella scienza; stavo solo scherzando: o meglio, stavo dicendo

sciocchezze. Vorrei tanto che leggessi la mano a questi signori. Su, ti prego.».24

«Ma certo, se proprio lo desideri: ma sai che non ho avuto modo di diventare un esperto in materia, e non

pretendo di esserlo. Quando un avvenimento del passato è registrato in modo prominente sul palmo, in genere so

riconoscerlo, ma quelli meno importanti mi sfuggono: non sempre, naturalmente, ma spesso. E poi non mi fido molto di

me stesso quando si tratta di leggere l'avvenire. Sto parlando come se studiassi ogni giorno la chiromanzia, ma non è

vero. Avrò esaminato sì e no una mezza dozzina di mani negli ultimi sei anni; sapete, la gente ci scherzava su e io ho

smesso, per lasciar cadere la cosa. Faremo così, conte Luigi: proverò col suo passato, e se avrò successo... No, tutto

sommato, preferisco lasciar perdere il futuro: è una faccenda da esperti.»

Prese la mano di Luigi. Tom disse:

«Un momento... non guardare ancora, Dave! Conte Luigi, ecco carta e penna. Ci scriva sopra quella predizione

così importante che, come ci diceva, si è verificata entro l'anno, e la dia a me, così vedrò se Dave sa leggerla sulla sua

mano.»

Luigi scrisse un rigo, senza farsi vedere, piegò il foglio e lo dette a Tom dicendo:

«Le indicherò io quando è il momento di guardare, se il signor Wilson la scopre.»

Wilson prese a esaminare il palmo di Luigi, le linee della vita, del cuore, dell'intelligenza e così via, annotando

accuratamente il loro rapporto con la ragnatela di segni e linee più sottili e delicate che le intersecavano da tutte le parti;

tastò la sporgenza alla base del pollice e ne osservò la forma; tastò la parte carnosa della mano, fra il pollice e la base

del mignolo, e osservò la forma anche di quella; con cura minuziosa esaminò le dita, la forma, le proporzioni e il modo

naturale in cui si disponevano in posizione di riposo. L'intero processo era seguito col massimo interesse dai tre

spettatori che, chini sulla mano di Luigi, non osavano turbare il silenzio neanche con un fiato. Wilson tornò a esaminare

il palmo, attentamente, e le sue rivelazioni cominciarono.

Fece un quadro del carattere e delle inclinazioni di Luigi, dei suoi gusti, tendenze, ambizioni ed eccentricità, e

Luigi a volte reagiva con una smorfia, altre con una risata, ma entrambi i gemelli dichiararono che la «mappa» era stata

tracciata con arte ed era esatta.

Poi Wilson parlò della vita di Luigi. Adesso procedeva cauto, esitante, mentre muoveva le proprie dita

lentamente lungo le linee del palmo, e di tanto in tanto si fermava di fronte a una «stella» o altri segni, ed esaminava

minuziosamente la zona. Menzionò uno o due avvenimenti passati; Luigi confermò, e la faccenda andò avanti. Poi

Wilson alzò gli occhi improvvisamente, con una espressione di sorpresa.

«Qui c'è la testimonianza di un incidente che forse lei non desidera...»

«Dica pure,» disse Luigi affabilmente. «Le assicuro che non ne sarò imbarazzato.»

Ma Wilson esitava ancora e pareva incerto sul da farsi. Poi disse:

«Ritengo che sia una faccenda troppo delicata per... per... Penso sia meglio che io la scriva o gliela dica in un

orecchio. Deciderà lei se vuole o meno che se ne parli.»

«Buona idea,» disse Luigi. «Lo scriva.»

Wilson scrisse qualcosa su un foglietto di carta e lo dette a Luigi, che lesse e disse a Tom:

«Apra il suo foglietto e legga, signor Driscoll.»

Tom lesse:

«Mi era stato profetizzato che avrei ucciso un uomo. Accadde prima dello scadere dell'anno

«Perbacco!» disse Tom.

Luigi porse a Tom il biglietto di Wilson dicendo:

«E ora legga questo.»

Tom lesse:

«Lei ha ucciso qualcuno, ma non riesco a capire se si tratti di un uomo, di una donna o di un bambino

«Per tutti i diavoli!» commentò Tom esterrefatto. «Non ho mai udito una cosa simile! Come! La mano di un

uomo è il suo più mortale nemico! Pensate un po'! La mano contiene la testimonianza dei segreti più profondi e fatali

della vita di un uomo, ed è pronta a metterli in luce a qualsiasi stregone sconosciuto che gli capiti d'incontrare. Ma

perché si lascia leggere la mano, con quella tremenda storia che vi è scritta?»

«Oh,» disse Luigi tranquillamente, «non ha importanza. Ho ucciso perché avevo le mie buone ragioni e non

me ne rammarico.»

«E che ragioni erano?»

«Beh, era necessario uccidere.»

«Ve lo dico io, perché lo ha fatto, dal momento che lui non vuole,» disse Angelo con calore. «L'ha fatto per

salvarmi la vita, ecco perché l'ha fatto. È stato un gesto nobile e non qualcosa da tenere nascosto.»

«È così, è così,» disse Wilson. «Fare una cosa del genere per salvare la vita del proprio fratello è un'azione

nobile e grande.»

«Andiamo,» disse Luigi, «è molto bello sentirvi dire queste cose, e certo quando si tratta di altruismo, di

eroismo, di magnanimità non c'è niente da eccepire. Ma voi non avete pensato a un dettaglio: supponiamo che io non

avessi salvato la vita ad Angelo, che cosa sarebbe accaduto a me? Se avessi lasciato che quell'uomo lo uccidesse, non

avrebbe forse ucciso anche me? Ho salvato la mia vita, capite!»

«Sì, questo è quello che dici tu,» disse Angelo, a ma io ti conosco. Non credo affatto che tu abbia pensato a te

stesso. L'ho conservato, il pugnale con cui Luigi uccise quell'uomo e un giorno ve lo mostrerò. E un'arma

interessantissima: non solo a causa di quell'episodio, ma perché prima che Luigi ne venisse in possesso aveva già una

storia. Fu regalata a Luigi da un grande principe indiano, il Gaikowar di Baroda, e apparteneva alla sua famiglia da due.25

o tre secoli. In epoche diverse aveva già ucciso un buon numero di persone poco gradite, che avevano dato guai a quel

casato. Non è un gran che a vedersi, a parte il fatto che non ha la forma di tutti gli altri pugnali o daghe o come si

chiamano. Ora ve lo disegno.» Prese un foglio di carta e fece un rapido schizzo. «Eccola: una lama larga e letale, con un

filo tagliente come un rasoio. Sopra vi sono incise le iniziali o i nomi di tutta la lunga serie dei suoi possessori. Come

vedete, io vi ho fatto aggiungere, in caratteri latini, il nome di Luigi e il nostro stemma. Avrete notato lo strano manico.

È di avorio, lucidato a specchio, e lungo circa dodici centimetri; è rotondo e grosso come il polso di un uomo robusto,

ma diventa piatto laddove vi si appoggia sopra il pollice, perché va tenuto col pollice premuto sulla parte non affilata, e

va alzato in aria e poi abbassato per colpire. Il Gaikowar ci mostrò come andava usato, quando lo regalò a Luigi, e

prima che la notte fosse trascorsa, Luigi aveva usato il pugnale e il Gaikowar si ritrovò con un suddito in meno. Il

fodero è decorato splendidamente con gemme di grande valore. Naturalmente lo troverete molto più interessante del

pugnale stesso.»

Tom disse fra sé:

«Meno male che sono venuto qui. Avrei venduto quel coltello per pochi soldi. Credevo che le pietre fossero

false.»

«Continui, la prego,» disse Wilson. «Siamo curiosi di sapere dell'omicidio. Ce ne parli.»

«Beh, il pugnale fu, tutto sommato, la causa di tutto. Quella notte un servo indigeno s'insinuò nella nostra

stanza per ucciderci e rubare il pugnale, attratto senza dubbio dall'immenso valore delle gemme incastonate nel fodero.

Luigi lo aveva messo sotto il cuscino. Eravamo nello stesso letto e la stanza era fiocamente illuminata. Io dormivo, ma

Luigi era sveglio e gli parve di vedere una vaga forma che si avvicinava al letto. Estrasse il pugnale dal fodero e si tenne

pronto. I suoi movimenti non erano impacciati dalle coperte perché faceva caldo e non ne avevamo. A un tratto

l'indigeno fu vicino al letto, si piegò su di me e levò la destra armata di una daga puntandomela alla gola. Ma Luigi gli

afferrò il polso, gettò a terra l'uomo e gl'infilò il proprio pugnale nel collo. Questo è tutto.»

Wilson e Tom cacciarono un sospiro profondo, e dopo qualche commento generale sulla tragedia, lo Svitato

disse afferrando la mano di Tom:

«A proposito, Tom, non ho mai dato un'occhiata al tuo palmo; forse hai qualche piccolo segreto poco

rispettabile che ha bisogno di... Ehi!»

Tom tirò via di scatto la mano e prese un'aria imbarazzata.

«Toh, è diventato rosso!» disse Luigi.

Tom gli gettò un'occhiata cattiva e disse aspro:

«Beh, se sono diventato rosso non è certo perché sono un assassino.» La faccia di Luigi avvampò ma prima

che riuscisse a muoversi o a parlare Tom si affrettò ad aggiungere: «Le chiedo mille scuse; non volevo dir questo; mi è

uscito senza volere; mi dispiace, mi dispiace davvero, mi perdoni!»

Wilson si prodigò per salvare la situazione e di fatto ci riuscì in pieno, per quanto riguardava i gemelli, i quali

si dolevano più per l'affronto inflitto a lui dall'ospite coi suoi modi ineducati che per l'insulto fatto a Luigi. Ma con il

colpevole ebbe meno successo. Tom tentò di mostrarsi a suo agio, e ci riuscì anche abbastanza, ma dentro di sé provava

un profondo risentimento per i tre testimoni della sua scenata. Il fatto che vi avessero assistito e l'avessero notata lo rese

furibondo - al punto che quasi si dimenticò di prendersela con se stesso per aver dato luogo a una simile esibizione.

Comunque, accadde subito qualcosa che lo mise un po' a suo agio e gli fece ritrovare una certa indulgente bonomia.

Questo qualcosa fu uno screzio fra i gemelli; non proprio un grosso screzio, ma pur sempre uno screzio; e prima che

passasse molto tempo, i due erano decisamente assai irritati l'uno con l'altro. Tom andò in brodo di giuggiole; era così

contento, che cautamente fece del suo meglio per attizzare il fuoco pur pretendendo di essere indotto dalle più

rispettabili intenzioni. Col suo aiuto, il focolaio si animò quasi al punto di esplodere, e di lì a poco Tom avrebbe avuto

la soddisfazione di vedere le fiamme levarsi se una bussata alla porta non avesse interrotto il tutto: una interruzione che

contrariò Tom e confortò in pari misura Wilson. Questi aprì la porta.

Il visitatore era un irlandese di nome John Buckstone, un uomo di mezza età, bonaccione, ignorante, energico,

un politicante spicciolo, pronto a intromettersi in ogni tipo di faccende pubbliche. In quei giorni la città era tutta

sossopra per la questione del whisky. C'era una forte fazione pro-whisky e una forte fazione anti-whisky. Buckstone,

che militava nella prima, era stato incaricato di rintracciare i gemelli per invitarli ad una riunione generale di tutti i

«whiskisti». Fece l'ambasciata e aggiunse che la gente si stava già radunando nella grande sala che occupava il piano

superiore del mercato. Luigi aderì cordialmente all'invito, Angelo un po' meno, perché non gli piaceva la folla e non era

uso ai forti beveraggi intossicanti americani. Anzi, quando la saggezza glielo suggeriva, era completamente astemio. I

gemelli uscirono con Buckstone, e Tom Driscoll, sebbene non invitato, si unì a loro.

In lontananza si vedeva, lungo la strada principale, una lunga fila di torce ondeggianti e si udiva il rullio del

tamburo, il clangore dei cimbali, il pigolio di uno o due pifferi, e l'eco di remoti urrah. La coda della processione stava

salendo le scale dell'edificio del mercato quando i gemelli giunsero nelle vicinanze. Quando entrarono nella sala, questa

era già piena di gente, di torce, di fumo, di rumore e d'entusiasmo. Furono pilotati sul palco da Buckstone - con Tom

Driscoll alle calcagna - e affidati al presidente tra un prodigioso scoppio di grida di «benvenuto». Quando il chiasso si

fu un poco calmato, il presidente disse: «Propongo che i nostri illustri ospiti siano immediatamente eletti, per

acclamazione, membri della nostra gloriosa associazione, paradiso degli uomini liberi e perdizione degli schiavi.»

Questo breve saggio di oratoria aprì nuovamente le cateratte dell'entusiasmo e l'elezione fu approvata con

tuonante unanimità. Poi si levò un uragano di urla:

«Bisogna bagnarli! Bisogna bagnarli! Dategli da bere!».26

Un bicchiere di whisky fu porto a ognuno dei due gemelli. Luigi lo alzò, poi lo portò alle labbra; ma Angelo

posò il suo. Altro uragano di urla:

«Che gli succede a quello? Perché il biondino si tira indietro? Spiegazioni! Spiegazioni!»

Il presidente s'informò, poi riferì:

«C'è stato uno spiacevole errore, signori. Apprendo ora che il conte Angelo Capello non è del nostro credo:

infatti è contrario all'alcool e non aveva nessuna intenzione di farsi membro della nostra organizzazione. Ci chiede di

rivedere la votazione con cui lo abbiamo eletto. Che cosa decide l'assemblea?»

Ci fu un generale scoppio di risa, sottolineato da fischi e pernacchi, ma l'uso energico del martelletto riportò

subito una parvenza di ordine. Poi dalla folla un tizio prese la parola e disse che pur rammaricandosi dell'errore

commesso, non era possibile rettificarlo durante la presente seduta. In base allo statuto, la discussione doveva essere

rinviata alla prossima seduta ordinaria. Personalmente, non intendeva presentare una mozione, dal momento che non ce

n'era bisogno. Desiderava porgere le sue scuse a quel signore a nome dell'assemblea, e ci teneva a rassicurarlo che, per

quanto era in loro potere, i Figli della Libertà gli avrebbero resa gradevole quella temporanea permanenza nell'Ordine.

Il discorso fu accolto da grandi applausi misti a grida di: «Ben detto! È una brava persona, anche se è astemio

per principio! Beviamo alla sua salute!»

Circolarono i bicchieri e tutti, sul palco, bevvero alla salute di Angelo mentre l'assemblea intonava in coro:

For he's a jolly good fel-low,

For he's a jolly good fel-low,

For he's a jolly good fel-low,

Which nobody can deny.

Tom Driscoll bevve. Era il suo secondo bicchiere, perché aveva già bevuto quello di Angelo non appena questi

l'aveva posato. I due whisky lo resero molto allegro - stupidamente allegro - e prese a partecipare attivamente,

mettendosi bene in vista, a quanto stava accadendo, particolarmente per quel che riguardava la musica, le pernacchie e i

commenti.

Il presidente era sempre in piedi con i gemelli a lato. La straordinaria rassomiglianza dei due fratelli suggerì a

Tom Driscoll una battuta di spirito, e proprio mentre il presidente stava per iniziare il discorso, si fece avanti e con quel

tono confidenziale tipico degli sbronzi, disse agli astanti:

«Ragazzi, propongo che lui stia zitto e lasci che questo doppione umano ci sforni un discorsetto.»

La calzante icasticità della frase soggiogò l'assemblea che reagì con uno scoppio di risate.

L'atroce umiliazione di questo insulto subito alla presenza di quattrocento stranieri, fece ribollire

immediatamente il sangue meridionale di Luigi. Non faceva parte della natura del giovanotto lasciar correre né ritardare

la resa dei conti. Mosse un paio di passi e si arrestò dietro all'ignaro schernitore. Poi si piegò all'indietro e gli sferrò un

calcio di tale titanica violenza che sollevò Tom al di sopra della ribalta e lo fece planare sulle teste dei Figli della

Libertà seduti in prima fila.

Perfino una persona sobria, quando non sta facendo nulla di male, si secca di vedersi rovesciare addosso un

essere umano; una persona che sobria non sia, non lo sopporta affatto. Il «nido» dei Figli della Libertà su cui atterrò

Driscoll non contava un solo uccello sobrio: infatti, molto probabilmente, non ce n'era neanche uno in tutta la sala.

Driscoll fu prontamente scaraventato sulle teste dei Figli seduti in seconda fila, e questi lo passarono alle retrofile e poi

immediatamente ingaggiarono una colluttazione coi Figli della prima fila, autori del lancio. Questo piano d'azione fu

puntualmente imitato da tutte le file, mentre Driscoll volava in un tumultuoso viaggio aereo verso la porta lasciandosi

dietro una interminabile scia di umanità inferocita, che si picchiava, litigava e imprecava. Le torce caddero a decine,

una dopo l'altra, e all'improvviso, al di sopra del battito assordante del martelletto, il fragore di voci irate e lo schianto e

il crollo delle panche, si levò un grido orripilante: «Al fuoco!»

La rissa cessò immediatamente; cessarono le imprecazioni; per un istante ci fu un silenzio di morte, una calma

immobile, là dove c'era stata una tempesta; poi, con impulso simultaneo, la folla si scosse e si mise a premere e a

ondeggiare, di qua e di là, mentre le frange esterne trovavano sfogo attraverso porte e finestre, e gradualmente

alleggerivano la pressione. Mai i pompieri furono più solleciti: questa volta, infatti, non dovevano andare lontano, visto

che la caserma si trovava sul retro dell'edificio del mercato. C'erano due squadre di pompieri: una si occupava delle

pompe, l'altra delle scale. Ogni squadra era composta per metà di «whiskisti», per metà di «antiwhiskisti», secondo il

principio etico e politico, comune alle città di frontiera dell'epoca, dell'equa ripartizione. In caserma era comunque

rimasto un numero sufficiente di «anti»; in due minuti, indossarono giubbe rosse ed elmetti (non si muovevano mai per

ragioni ufficiali in abiti non ufficiali) e mentre la massa dei convenuti erompeva dalle numerose finestre e si abbatteva

sul tetto del porticato, i soccorritori erano già pronti ad accoglierli con un potente getto d'acqua che spazzò alcuni giù

dal tetto e per poco non affogò i rimanenti. Ma l'acqua era sempre meglio del fuoco, e così il fuggi fuggi dalle finestre

continuò, sotto i getti impietosi, finché l'edificio si fu svuotato. In seguito i pompieri salirono nella sala e vi

rovesciarono tanta di quell'acqua da spegnere un incendio quaranta volte più grande; infatti i pompieri di una cittadina

come quella non avevano molte occasioni di mettersi in mostra e quando ne capitava una, cercavano di sfruttarla al

massimo. Tra gli abitanti di Dawson's Landing, quanti erano per temperamento assennati e riflessivi, non si

assicuravano contro gli incendi, si assicuravano contro i pompieri..27

XII

Il coraggio è la capacità di resistere alla paura, di dominare la paura: non è l'assenza di paura. Se un essere non è un

tantino codardo, chiamarlo coraggioso non è un complimento: è solo un uso improprio della parola. Prendiamo la pulce!

Incomparabilmente la più coraggiosa delle creature di Dio, se l'ignoranza della paura fosse coraggio. Sveglio o

addormentato che tu sia, ti attacca comunque, incurante del fatto che per mole e forza tu sei, al suo confronto, come gli

eserciti uniti della terra rispetto a un poppante; essa vive giorno e notte e tutti i giorni e tutte le notti nel grembo stesso

del pericolo e nell'immediata presenza della morte, e tuttavia non ha più paura di quanta ne abbia l'uomo che cammina

per le strade di una città minacciata dieci secoli prima da un terremoto. Quando diciamo di Clive, Nelson e Putnam che

erano uomini «che non sapevano cosa fosse la paura», dovremmo aggiungere all'elenco la pulce e metterla m testa al

gruppo.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Alle dieci di sera di venerdì, il giudice Driscoll era già a letto e addormentato, e prima dell'alba seguente era

già in piedi e se n'era andato a pesca col suo amico Pembroke Howard. I due erano stati ragazzi insieme nella Virginia

al tempo in cui quello Stato era considerato il principale e più augusto membro dell'Unione, e quando parlavano della

loro terra aggiungevano tuttora il fiero e affettuoso aggettivo di «vecchia». Nel Missouri, chiunque provenisse dalla

vecchia Virginia godeva di una riconosciuta superiorità, e questa superiorità assurgeva a supremazia quando la persona

che vantava simili natali poteva anche provare di discendere da una delle prime famiglie virginiane. Gli Howard e i

Driscoll appartenevano a questa aristocrazia. Ai loro occhi si trattava di nobiltà. Aveva le sue leggi non scritte, ma ben

definite e rigide come quelle contenute fra gli statuti stampati del Paese.

Chi apparteneva alle prime famiglie nasceva gentiluomo; il suo più alto dovere nella vita era aver cura di

quella grande eredità e mantenerla inviolata. Il suo onore doveva essere senza macchia. Quelle leggi erano come una

mappa sulla quale era tracciato il corso delle sue azioni; se l'ago della bussola si spostava anche di mezzo grado, ciò

significava il naufragio del suo onore e, di conseguenza, la degradazione dal suo rango di gentiluomo. Quelle leggi

richiedevano da lui cose che la religione avrebbe potuto vietargli; in tal caso la religione doveva cedere: le leggi non

potevano essere mitigate per compiacere la religione o altro. L'onore veniva prima di tutto; e le leggi definivano cosa

fosse e in che modo differisse, per certi dettagli, dall'onore così come era inteso dai credo religiosi, dalle norme sociali e

dai costumi di alcune trascurabili parti del globo che erano rimaste fuori dei sacri confini della Virginia, al tempo in cui

erano stati tracciati.

Se il giudice Driscoll era riconosciuto da tutti come il primo cittadino di Dawson's Landing, Pembroke Howard

ne era senz'altro riconosciuto il secondo. Era chiamato il «grande giurista»: un titolo più che meritato. Lui e Driscoll

erano della stessa età, avevano passato di un anno o due la sessantina. Sebbene Driscoll fosse un libero pensatore e

Howard un convinto e intransigente presbiteriano, la loro salda amicizia non ne soffriva. Le loro opinioni erano loro

proprietà esclusiva, non soggetta a ripensamenti ed emendamenti, consigli o critiche da parte di chicchessia, fosse anche

degli amici. Finita la giornata di pesca, i due discendevano il fiume sulla loro barca parlando di politica e di altri

importanti argomenti, quando incrociarono una imbarcazione che veniva dalla città. L'unico uomo a bordo li apostrofò:

«Lo sa, giudice, che uno dei nuovi gemelli ha preso a calci suo nipote, ieri sera?»

«E la fatto cosa?»

«Lo ha preso a calci.»

Le labbra del giudice sbiancarono, e gli occhi mandarono fiamme. Per un attimo la rabbia lo soffocò, ma poi

riuscì a pronunciare le parole che tentava di dire:

«Su, su, continuate! Ditemi i particolari.»

L'uomo glieli disse. Quando ebbe finito, il giudice rimase in silenzio per un minuto, raffigurandosi nella mente

lo spettacolo vergognoso del volo di Tom al di là della ribalta; poi disse, come pensando ad alta voce: «Ehm, non

capisco. Ero a casa che dormivo, e non mi ha svegliato. Avrà pensato di saper sbrigare gli affari suoi senza il mio

aiuto.» A quell'idea il volto gli si illuminò di gioia e disse tutto allegro e compiaciuto:

«Così mi piace: degno del vecchio sangue, eh, Pembroke?»

Howard gli rivolse un sorriso adamantino, e chinò il capo in segno di approvazione. Poi il messaggero parlò di

nuovo:

«Ma Tom ha vinto la causa contro il gemello.»

Il giudice guardò l'uomo con aria stupita:

«La causa? Quale causa?»

«Be', Tom lo ha portato davanti al giudice Robinson per aggressione e percosse.»

Il vecchio si afflosciò all'improvviso, come chi abbia ricevuto un colpo mortale. Howard fu pronto a prenderlo

tra le braccia mentre cadeva in avanti svenuto, e lo adagiò sul fondo della barca; poi gli spruzzò un po' d'acqua in faccia

e disse all'uomo dell'altra barca che guardava allibito:

«Andate, adesso; non deve trovarvi qui quando rinviene; vedete che effetto hanno avuto le vostre parole

sconsiderate; avreste dovuto avere qualche riguardo, invece di andare blaterando una così crudele calunnia.»

«Sono profondamente addolorato, signor Howard, e non lo avrei fatto se ci avessi pensato: ma non si tratta di.28

calunnia; è tutto assolutamente vero, proprio come ho detto.»

Si allontanò remando. Ben presto il vecchio giudice rinvenne e guardò pietosamente la faccia costernata, china

su di lui.

«Dimmi che non è vero, Pembroke; dimmi che non è vero!» supplicò con debole voce.

L'altro gli rispose con tono fermo:

«Lo sai meglio di me che è una menzogna, vecchio mio. Nelle vene di Tom scorre il miglior sangue del

vecchio Dominio.»

«Dio ti benedica per quello che hai detto,» esclamò con fervore il vecchio gentiluomo. «Ah, Pembroke, che

colpo ho avuto!»

Howard rimase con l'amico, lo accompagnò a casa, ed entrò con lui. Era buio, e l'ora di cena era già passata,

ma il giudice non pensava alla cena; era ansioso di sentir confutare la calunnia dalla fonte diretta, e altrettanto ansioso

che Howard fosse presente. Fu chiamato Tom, che arrivò immediatamente. Era ammaccato e zoppicante e non offriva

certo un bello spettacolo. Suo zio lo fece sedere e disse:

«Abbiamo sentito delle tue avventure, Tom, con l'aggiunta di una bella menzogna, tanto per gradire. Ora devi

cancellare quella menzogna, ridurla in polvere! Che misure hai preso? A che punto stanno le cose?»

Tom rispose con franchezza: «Non stanno a nessun punto. È tutto fatto. L'ho portato in tribunale e ho vinto.

Wilson lo Svitato lo ha difeso: era la prima causa e l'ha perduta. Il giudice ha multato quel cane miserabile di cinque

dollari, per l'aggressione.»

Howard e il giudice erano balzati in piedi alla prima frase, nessuno dei due sapeva perché; poi rimasero lì a

guardarsi con occhi vacui. Howard restò in piedi per un poco, poi sedette mestamente, senza proferire parola. La rabbia

del giudice cominciò ad attizzarsi, poi esplose:

«Bastardo! Feccia! Rifiuto della società! Vuoi dirmi che il sangue del mio sangue ha ricevuto un insulto ed è

andato a piangere in tribunale? Rispondi!»

Tom abbassò il capo e rispose con un silenzio eloquente. Suo zio lo guardò con un'espressione mista di

stupore, di sdegno e d'incredulità che faceva pena a vedersi. Da ultimo disse:

«Quale dei gemelli è stato?»

«Il conte Luigi.»

«E lo hai sfidato?»

«N... no,» esitò Tom, facendosi pallido.

«Lo sfiderai stasera. Howard se ne incaricherà.»

Tom stava male, e si vedeva. Continuava a rigirarsi il cappello fra le mani, mentre lo zio si faceva sempre più

torvo mentre i secondi passavano lentamente; infine si mise a balbettare e disse pietosamente:

«Ti prego, zio, non me lo chiedere! È un diavolo omicida - non potrei mai - io... io ho paura!»

La bocca del vecchio Driscoll si aprì e si chiuse ben tre volte prima che gli riuscisse di farla funzionare, poi

tuonò:

«Un codardo nella mia famiglia! Un Driscoll codardo! Ah, che cosa ho fatto mai per meritarmi questa

infamia!»

Si avvicinò, traballando, al suo scrittoio nell'angolo, ripetendo in continuazione quel lamento, da spezzare il

cuore, e tirò fuori dal cassetto una carta che lentamente stracciò in mille pezzi, sparpagliando distrattamente i frammenti

ai suoi piedi mentre camminava su e giù per la stanza, sempre gemendo e lamentandosi. Alla fine disse:

«Eccolo, ancora una volta ridotto in mille pezzi, il mio testamento. Ancora una volta mi hai costretto a

diseredarti, ignobile rampollo di un nobilissimo padre! Via dai miei occhi! Vattene, prima che ti sputi in faccia!»

Il giovanotto non indugiò oltre. Allora il giudice si rivolse a Howard:

«Vuoi essere il mio padrino, vecchio mio?»

«Ma certo.»

«Eccoti penna e carta. Prepara il cartello di sfida senza perdere un minuto di tempo.»

«Fra quindici minuti sarà nelle mani del conte,» disse Howard.

Tom aveva il cuore grosso. Il suo appetito se n'era andato insieme alla sua proprietà e al rispetto di se stesso.

Uscì dalla porta posteriore e si avviò tristemente per la stradetta buia, domandandosi se mai la sua condotta futura, per

quanto avveduta, corretta e controllata, avrebbe potuto restituirgli il favore dello zio persuadendolo a rifare quel

generoso testamento che poco prima era stato fatto a pezzi sotto i suoi occhi. Alla fine concluse che la cosa era

possibile. Si disse che già una volta era riuscito in un'impresa del genere, e quello che era stato fatto in passato poteva

essere fatto di nuovo. Si sarebbe messo d'impegno. Avrebbe dedicato tutte le sue energie a quel compito, e ancora una

volta avrebbe finito col trionfare a qualsiasi costo, sia pure a costo di sacrificare la sua vita frivola, insofferente di

limitazioni.

«Per prima cosa,» si disse, «sistemo i debiti col ricavato della razzia, e poi devo smettere di giocare

completamente. È il vizio peggiore che mi ritrovo, almeno dal mio punto di vista, perché è quello che lui può scoprire

più facilmente, per l'impazienza dei creditori. E si credeva che duecento dollari fossero una grossa somma! Grossa

somma quella! Certo, mi è costata tutta la sua fortuna! Ma naturalmente a questo lui non pensa; certa gente vede le cose

solo dal suo punto di vista. Se sapesse in che situazione mi trovo ora, il testamento sarebbe andato in fumo anche senza

l'aiuto del duello. Trecento dollari! È un bel mucchio! Ma grazie al cielo non ne sentirà mai parlare. Non appena avrò

saldato i miei debiti sarò salvo, e non toccherò più una carta da gioco. Per lo meno fin tanto che lui vive; e questo posso.29

giurarlo. È l'ultima possibilità che ho di redimermi, lo so; e ce la farò. Ma se sgarro di nuovo, sono perduto.»

XIII

Quando penso al numero di persone sgradevoli di mia conoscenza che sono passate a un mondo migliore, mi viene

voglia di condurre una vita diversa.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Ottobre: questo è uno dei mesi particolarmente pericolosi per speculare in Borsa. Gli altri sono luglio, gennaio,

settembre, aprile, novembre, maggio, marzo, giugno, dicembre, agosto e febbraio.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Dialogando mestamente con se stesso Tom proseguì per la stradetta che passava davanti alla casa di Wilson lo

Svitato e proseguiva tra palizzate che su entrambi i lati cintavano lotti vacanti fino alla casa stregata. Poi tornò sui suoi

passi, sempre sospirando e oppresso dai suoi problemi. Aveva un gran desiderio di compagnia allegra. Rowena! A quel

pensiero il cuore gli diede un balzo, ma il pensiero successivo gli tolse ogni entusiasmo: da Rowena avrebbe incontrato

gli odiati gemelli.

Si trovava ora dalla parte disabitata della casa di Wilson, e mentre si avvicinava notò che il salotto era

illuminato. Be', si sarebbe accontentato; altri, a volte, gli facevano sentire che non era il benvenuto, ma Wilson non era

mai stato scortese con lui, e un atto di cortesia, anche se non pretende di essere un benvenuto, perlomeno risparmia

l'amor proprio di una persona.

Wilson sentì dei passi alla porta, poi qualcuno che si schiariva la gola.

«È quel giovane sciocco, volubile e dissipato. Povero diavolo, non ne trova molti di amici, dopo l'episodio

vergognoso di oggi: ricorrere al tribunale perché uno gliele ha suonate...»

Un timido tocco alla porta. «Avanti.» Tom entrò e cadde a sedere su una sedia, senza parlare. Wilson disse

gentilmente: «Ragazzo mio, mi sembri affranto. Non te la prendere così. Cerca di dimenticare di essere stato preso a

calci.»

«Oh Dio,» disse Tom disperato, «non si tratta di questo, Svitato, non si tratta di questo. È mille volte peggio.

Sì, un milione di volte peggio.»

«Ma che dici, Tom? Forse Rowena...?»

«Mi ha scacciato? No. Ma lo ha fatto il vecchio.»

Wilson disse fra sé «Ah, ah!» e pensò alla misteriosa ragazza nella camera da letto. «I Driscoll hanno fatto

qualche scoperta!»

Poi, ad alta voce, in tono grave:

«Tom, ci sono alcune forme di dissolutezza che...»

«Oh, sciocchezze, non ha nulla a che vedere con la dissolutezza. Lui voleva che sfidassi quel maledetto

selvaggio d'un italiano, e io non ci sono stato.»

«Be', è naturale che lo volesse,» disse Wilson meditabondo. «Piuttosto mi chiedo perché non ci ha pensato ieri

sera e, in secondo luogo, perché ti ha permesso di portare una questione simile in tribunale, prima o dopo il duello che

fosse. Non era il luogo adatto, e non è cosa degna di lui. Non l'ho capita. Come mai è andata così?»

«È andata così perché lui non ne sapeva nulla. Dormiva, quando sono arrivato a casa ieri sera.»

«E tu non lo hai svegliato? Ma come è possibile, Tom?»

Neanche Wilson gli era di gran conforto. Tom esitò un poco, poi disse: «Sono io che ho deciso di non dirglielo,

ecco tutto. Doveva andare a pesca prima dell'alba con Pembroke Howard, e se io mandavo i gemelli in galera - ed ero

certo di riuscirci (non mi sognavo neppure che se la sarebbero cavata con una stupida multa, per una offesa così

oltraggiosa) - beh, una volta dentro, sarebbero stati svergognati, e lo zio non avrebbe certo voluto un duello con quel

tipo di gente, e non lo avrebbe mai permesso.»

«Mi meraviglio di te, Tom! Non capisco come hai potuto trattare così tuo zio. Gli sono più amico io di te; se

avessi saputo come stavano le cose, avrei fatto rinviare la causa in modo da avvertirlo e dargli la possibilità di giungere

ad una soluzione onorevole.»

«Davvero?» esclamò Tom, vivamente sorpreso. «Con tutto che era la tua prima causa, e sapevi benissimo che

non ci sarebbe stata nessuna causa, se lui avesse avuto quella possibilità? E avresti finito i tuoi giorni ignorato da tutti,

mentre oggi sei un avvocato lanciato e riconosciuto. E tuttavia dici che lo avresti fatto?»

«Ma certo!»

Tom lo guardò per un momento, poi scosse il capo mestamente dicendo:

«Ti credo, giuro che ti credo. Non so perché, ma è così. Svitato, sono convinto che tu sia il più grande sciocco

che abbia mai incontrato.»

«Grazie.»

«Prego.»

«Beh, ti ha chiesto di batterti con l'italiano, e hai rifiutato. Figlio degenere di una stirpe onorata! Mi vergogno.30

di te, Tom!»

«Oh, questo è niente! Non me ne importa nulla, ora che il testamento è stato strappato.»

«Dimmi la verità, Tom: tuo zio se l'è presa solo perché hai portato la cosa in tribunale e ti sei rifiutato di

batterti, o aveva qualcos'altro da rimproverarti?»

Scrutò il viso del giovanotto che però era calmissimo: come anche la sua voce, del resto:

«No, niente. Se avesse avuto qualcos'altro da rimproverarmi, avrebbe cominciato già ieri, era proprio

dell'umore giusto. Ieri si è scarrozzato quella bella coppia in giro per la città e quando è tornato a casa non riusciva a

trovare il vecchio orologio d'argento di suo padre, che non è mai giusto, ma lui ci tiene tanto, e non riusciva a ricordarsi

che cosa ne avesse fatto l'ultima volta che lo aveva visto, tre o quattro giorni fa. Così, quando sono arrivato io, era tutto

affannato, e appena gli ho suggerito che forse non era andato perduto ma era stato rubato, è andato su tutte le furie e mi

ha dato dello sciocco, il che mi ha convinto immediatamente che era proprio quello che temeva fosse accaduto, ma non

voleva crederci perché la roba perduta ha maggiori probabilità di essere ritrovata di quella rubata.»

«Fffffii,» fischiò Wilson, «un altro da aggiungere alla lista.»

«Un altro cosa?»

«Un altro furto.»

«Furto?»

«Sì, furto. Quell'orologio non è andato perduto, è stato rubato. C'è stata un'altra razzia in città, e non meno

misteriosa di quella dell'altra volta.»

«Ma no!»

«Se ti dico di sì! A te non è venuto a mancare niente?»

«No. Cioè, mi mancava una matita d'argento che la zia Pratt mi aveva regalato per il mio ultimo compleanno.»

«Vedrai che è stata rubata.»

«No, invece; perché quando ho suggerito allo zio che l'orologio poteva essere stato rubato, prendendomi una

lavata di capo, sono andato in camera mia, e mancava la matita, ma era solo rotolata da qualche parte, e così l'ho

ritrovata.»

«Ma sei certo che non ti manca nient'altro?»

«Beh, niente d'importante. Non trovo più un anellino d'oro del valore di due o tre dollari, ma anche quello

scapperà fuori. Cercherò meglio.»

«Secondo me non lo troverai. C'è stata una razzia, ti dico. Avanti!»

Entrò il giudice Robinson, seguito da Buckstone e dal poliziotto locale, Jim Blake. Sedettero, e dopo qualche

chiacchiera sul tempo, Wilson disse:

«A proposito, bisogna aggiungere un altro furto alla lista; forse due. Il vecchio orologio d'argento del giudice

Driscoll è sparito, e Tom, qui, dice che gli manca un anello d'oro.»

«Brutta faccenda,» disse il giudice, «e peggiora ogni giorno. Gli Hankse, i Dobson, i Pilligrew, gli Orton, i

Granger, gli Hale, i Fuller, gli Holcomb, e di fatto tutti quelli che abitano dalle parti di Patsy Cooper sono stati derubati

di qualche oggettino: ninnoli, cucchiaini da tè, e altri piccoli preziosi facilmente asportabili. E chiaro che il ladro ha

approfittato del ricevimento di Patsy Cooper, quando tutti i vicini erano lì e i negri se ne stavano tutt'intorno alla

staccionata a godersi lo spettacolo, per saccheggiare indisturbato le case lasciate vuote. Patsy è avvilita; avvilita per i

vicini e soprattutto per i suoi forestieri, naturalmente; così avvilita per loro, che non ha neanche il tempo di preoccuparsi

delle proprie perdite.»

«Si tratta sempre dello stesso ladro,» disse Wilson. «Non mi pare che ci possano essere dubbi.»

«L'agente Blake non è di questo parere.»

«No,» disse Blake. «Lei sbaglia, Wilson. Le altre volte si trattava di un uomo; c'erano tutti gli indizi, lo

sappiamo noi che siamo del mestiere, anche se non siamo riusciti a mettergli le mani addosso; rna questa volta si tratta

di una donna.»

Wilson pensò subito alla misteriosa fanciulla: l'aveva sempre in mente. Ma ancora una volta non si trattava di

lei. Blake continuò:

«È una vecchia dalle spalle curve, con una cesta appesa al braccio, e un velo nero, da lutto. L'ho vista salire sul

ferryboat ieri. Abita nell'Illinois, credo; ma non importa dove abita: la prenderò lo stesso, può starne certa.»

«Che cosa le fa credere che sia lei la ladra?»

«Beh, per prima cosa non c'è nessun altro; e poi, dei carrettieri negri che, si dà il caso, passavano di lì, la hanno

vista entrare e uscire dalle case e me lo hanno detto - e, si dà il caso, erano sempre case derubate.»

Tutti convennero che le prove indiziarie erano più che sufficienti. Seguì un meditabondo silenzio, che durò

qualche minuto. Poi Wilson disse:

«C'è qualcosa di buono, in tutto questo: la vecchia non può né impegnare né vendere il prezioso pugnale

indiano del conte Luigi.»

«Mio Dio,» disse Tom, «è sparito anche quello?»

«Sì.»

«Quello sì che è stato un bel bottino! Ma perché non può essere impegnato o venduto?»

«Perché ieri sera, quando i gemelli sono tornati a casa dalla riunione dei Figli della Libertà, la notizia del furto

si era già divulgata, e zia Patsy era preoccupata che anche loro avessero perduto qualcosa. Così hanno scoperto che il

pugnale era sparito, e hanno avvertito la polizia e i banchi di pegno delle diverse città. E stato un bel bottino, certo, ma.31

la vecchia non ci ricaverà nulla perché la prenderanno.»

«Hanno offerto una ricompensa?» chiese Buckstone.

«Sì. Cinquecento dollari per il pugnale, e altri cinquecento per il ladro.»

«Che idea balorda!» esclamò il poliziotto. «Così il ladro non osa avvicinarsi o mandare qualcuno. Chiunque ci

va rischia di essere beccato, perché nessuno strozzino si lascia scappare l'occasione di...»

Se qualcuno avesse notato, a questo punto, la faccia di Tom, il suo colore grigio-verdastro avrebbe potuto

suscitare curiosità; ma nessuno lo notò. Lui pensava: «Sono spacciato! Non riuscirò mai a mettermi in regola. Col resto

del bottino, non ci ricavo neppure la metà del debito. Oh, non c'è scampo, sono finito, finito, e questa volta senza

speranza. Oh, è orribile, non so che fare, non so a che santo votarmi!»

«Calma, calma,» disse Wilson a Blake. «Ieri a mezzanotte gli ho preparato un piano, e alle due di questa

mattina tutto era congegnato a meraviglia. Riavranno il loro pugnale, e poi vi spiegherò come è andata.»

Seguirono manifesti segni di curiosità generale, e Buckstone disse:

«Beh, ci sta tenendo sul filo del rasoio, Wilson, e oserei dire che, se volesse raccontarci in confidenza...»

«Oh, glielo direi molto volentieri, Buckstone, ma dal momento che con i gemelli ci siamo accordati di non dire

niente, dobbiamo lasciare le cose come stanno. Ma le do la mia parola che non dovrete aspettare neanche tre giorni. Ben

presto si farà avanti qualcuno a chiedere la ricompensa, e allora vi mostrerò ladro e coltello.»

Il poliziotto rimase deluso e perplesso anche. E disse:

«Sì, sì, può darsi, lo spero proprio, ma vigliacco se ci capisco qualcosa. Troppo complicato per i gusti del

sottoscritto.»

L'argomento era esaurito, e nessuno sembrava aver altro da dire. Dopo un poco il giudice di pace informò

Wilson che lui, Buckstone e il poliziotto erano stati delegati dal partito democratico a chiedergli di porre la sua

candidatura alla carica di sindaco, perché la cittadina stava per diventare una vera città, e il giorno delle prime elezioni

amministrative si avvicinava. Era la prima volta che Wilson riceveva un segno d'interesse da parte di qualche partito, un

segno modesto, ma che rappresentava un riconoscimento del suo début nella vita e nelle attività cittadine. Era un passo

avanti, e lui ne fu molto contento. Accettò, e la delegazione se ne andò, seguita dal giovane Tom.

XIV

Il vero cocomero del Sud è una manna che non ha uguali, non va confuso con i prodotti comuni. Principe fra i piaceri

del mondo, è, per grazia divina, re di tutti i frutti della terra. Quando lo si è assaggiato, si capisce quale sia il cibo degli

angeli. Non fu un cocomero del Sud quello che mangiò Eva; lo sappiamo, perché si pentì.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Nel momento in cui Wilson s'inchinava a salutare la delegazione uscente, Pembroke Howard entrava nella casa

vicina per fare il suo rapporto. Trovò il vecchio giudice seduto, torvo e rigido, nella sua poltrona, che aspettava.

«Ebbene, Howard... Che notizie?»

«Ottime.»

«Accetta, allora?» E lo sguardo del giudice si accese di un lampo battagliero.

«Se accetta? Ma ha fatto un salto di gioia.»

«Davvero? Bene. Proprio bene. Così mi piace. E a quando?»

«Subito, adesso! Stasera! Una persona ammirevole... ammirevole!»

«Ammirevole? È impagabile! E un onore, oltre che un piacere, battersi con un uomo simile. Su, vai! Prepara

ogni cosa, e portagli i miei più sinceri complimenti. Una persona rara davvero; un essere ammirevole, hai detto bene!»

Howard scappò via dicendo:

«Lo farò venire fra un'ora sul terreno incolto tra la casetta di Wilson e la casa stregata. E porterò le mie

pistole.»

Il giudice Driscoll si mise a camminare su e giù euforico ed eccitato. Ma presto si fermò e cominciò a

pensare... cominciò a pensare a Tom. Due volte fece per andare verso lo scrittoio, e due volte gli voltò le spalle; ma

finalmente disse:

«Può darsi che sia la mia ultima notte su questa terra, non devo rischiare. Tom è privo di meriti e non si merita

nulla, ma in gran parte è per colpa mia. Mi fu affidato da mio fratello sul letto di morte, e io l'ho viziato fino a

danneggiarlo, invece di tirarlo su con severità e farne un uomo. Sono venuto meno al mio dovere e ora non debbo

caricarmi anche di un'altra colpa, abbandonandolo. L'ho già perdonato una volta, e se continuassi a vivere lo sottoporrei

a una unga e dura prova prima di perdonarlo di nuovo, ma non posso correre questo rischio. No, debbo rifare il

testamento. Ma se sopravvivo al duello, lo nascondo, e lui non lo saprà mai. Non glielo dirò finché non si sarà riabilitato

e, da parte mia, non mi sarò convinto che si tratta di una riabilitazione definitiva.»

Redasse di nuovo il testamento, e il suo presunto nipote diventò ancora una volta l'erede di una grossa fortuna.

Mentre il giudice terminava di scrivere, Tom, stanco dopo un altro mesto vagabondaggio, entrò in casa e passò in punta

di piedi davanti alla porta del salottino. Gettò un'occhiata dentro e passò oltre di corsa, perché quella sera la vista dello

zio gli suscitava solo terrore. Ma suo zio stava scrivendo! Era una cosa insolita, a quell'ora tarda. Che cosa poteva.32

scrivere? Un brivido di sgomento serrò il cuore di Tom. Forse qualcosa che lo riguardava? Aveva paura di sì. Rifletté

che quando la mala sorte comincia a perseguitarti, non si tratta mai di pioggerella, ma di acquazzone. Si disse che

avrebbe dato un'occhiata al documento per scoprirne il contenuto. Poi udì un passo che si avvicinava, e si nascose in

modo da non essere visto o sentito. Era Pembroke Howard. Che cosa stavano macchinando?

Howard disse con grande soddisfazione:

«È tutto a posto. È andato sul luogo dell'incontro col suo secondo e il chirurgo, e anche col fratello. Ho

preparato tutto, insieme a Wils on. Wilson è il suo secondo. Ciascuno avrà tre colpi a disposizione.»

«Benissimo. Com'è la luna?»

«Chiara come il giorno. Perfetta per la distanza... quindici metri. Niente vento, neanche un soffio; l'aria è calda

e ferma.»

«Benone; tutto a posto. Ecco, Pembroke, leggi qui e firma.»

Pembroke lesse e firmò il testamento, poi strinse cordialmente la mano del vecchio e disse:

«Così va bene, York: lo sapevo che l'avresti fatto. Non potevi lasciare quel povero ragazzo a lottare senza

mezzi e senza una professione, con la prospettiva di una sconfitta sicura; lo sapevo che non potevi farlo, se non altro per

amore di suo padre.»

«Lo so, non potevo, per amore di suo padre; per il povero Percy... tu lo sai cos'era Percy per me. Ma attento,

Tom non deve saperne nulla, a meno che io non cada stasera.»

«Capisco. Manterrò il segreto.»

Il giudice ripose il testamento, e i due si avviarono al luogo dell'incontro. Un minuto dopo il testamento era

nelle mani di Tom. La sua tristezza svanì; i suoi sentimenti subirono un totale capovolgimento. Rimise con cura il

testamento al suo posto, e spalancò la bocca, facendosi piroettare il cappello in testa una, due, tre volte, come chi lanci

tre poderosi urrà, ma nessun suono gli uscì dalle labbra. Si mise a parlare tra sé, eccitato e gioioso, e di tanto in tanto

lanciava un'altra salva di muti urrà.

Si disse: «Ora ho di nuovo il mio patrimonio; ma non farò capire che lo so. E questa volta non me lo lascio

scappare. Non correrò altri rischi. Non giocherò più, non berrò più, perché... beh, perché non andrò più dove si fanno

queste cose. È il modo più sicuro, l'unico. Avrei dovuto pensarci prima... beh, sì, se lo avessi voluto. Ma adesso, caro

mio, mi sono preso una bella paura, e non ci casco più. Neanche una volta. Cielo! Questa sera m'ero convinto che l'avrei

riconquistato senza troppi sforzi, ma poi mi sono sentito scoraggiato e dubbioso. Se me ne parla, di questa cosa, va

bene. Se no, farò finta di niente. Io... beh, mi piacerebbe dirlo a Wilson lo Svitato, ma... no, ci penserò, forse è meglio di

no.» Lanciò un altro muto urrà, e disse: «Sono rientrato in carreggiata, e ora ci rimango di sicuro!»

Stava per concludere con un'ultima esplosione di gioia quando si ricordò improvvisamente che Wilson gli

aveva tolto la possibilità d'impegnare o vendere il pugnale indiano, e che quindi correva sempre il pericolo di essere

smascherato dai suoi creditori. La sua gioia si smorzò completamente, ed egli si diresse verso la porta gemendo e

lamentandosi contro la sua amara sorte. Si trascinò al piano di sopra, e per molto tempo rimase nella propria stanza,

afflitto e sconsolato, a contemplare il pugnale indiano di Luigi. Alla fine sospirò e disse:

«Quando credevo che queste pietre fossero vetracci e questo avorio osso, questo oggetto non m'interessava,

perché per me non aveva valore e non poteva tirarmi fuori dai pasticci. Ma ora... ora mi interessa e come! Sì, è una cosa

da spezzarti il cuore. È un sacchetto d'oro che si è tramutato in terra e cenere tra le mie mani.

Poteva salvarmi, e salvarmi facilmente, e invece sto andando in rovina. È come annegare avendo a portata di

mano un salvagente. Tutte le sfortune sono mie, e tutte le fortune vanno agli altri. A Wilson lo Svitato, per esempio;

persino la sua carriera si è avviata, alla fine, e che cosa ha fatto per meritarselo? Sì, si è aperto la propria strada, ma non

contento di questo, deve bloccare la mia. È un mondo sordido, egoista, e vorrei esserne fuori.» Lasciò che la luce della

candela giocasse coi gioielli del fodero, ma quei luccichii e bagliori non avevano fascino per lui: erano altrettante fitte al

cuore. «Non devo dire niente a Roxy di questa storia,» disse. «Lei è troppo spericolata. Estrarrebbe queste pietre e le

venderebbe e poi... l'arresterebbero, individuerebbero le pietre, e allora...» Quel pensiero lo fece rabbrividire. Nascose il

pugnale, tremando tutto e guardandosi attorno con aria furtiva, come un criminale che senta appressarsi l'accusatore. E

se avesse provato a dormire? No, il sonno non era per lui; il suo tormento era troppo grande, troppo ossessionante.

Doveva trovare qualcuno con cui sfogarsi. Avrebbe portato la sua disperazione a Roxy.

Aveva udito vari spari in lontananza, ma la cosa era abbastanza comune, per cui non ne fu impressionato. Uscì

dalla porta posteriore e si diresse verso ovest. Passò davanti alla casa di Wilson e proseguì per la stradetta, e poi vide

parecchie figure che si avvicinavano alla casa di Wilson, attraverso i lotti abbandonati. Erano i duellanti che tornavano

dallo scontro. Credette di riconoscerli, ma poiché non aveva voglia della compagnia dei bianchi, rimase accoccolato

dietro la siepe, finché quelli non furono passati.

Roxy era in piena forma. Disse:

«E dov'è che te ne stavi, figlio? Non c'eri anche tu?»

«Dove?»

«Al duello.»

«Duello? C'è stato un duello?»

«Eccome che c'è stato. Il vecchio giudice ha fatto il duello con uno di quei gemelli.»

«Santo cielo!» esclamò Tom; poi aggiunse fra sé: «ecco che cosa l'ha indotto a rifare il testamento. Ha pensato

che poteva restare ucciso e s'è commosso per me. Ecco perché lui e Howard erano tutti indaffarati... Oh Dio, se il

gemello l'ha ammazzato, sarei fuori da...».33

«Che borbotti, Chambers? Dov'eri? Non lo sapevi che ci stava un duello?»

«No, non lo sapevo. Il vecchio ha tentato di farmi battere col conte Luigi, ma non c'è riuscito; così, da quanto

capisco, ha deciso di difendere l'onore della famiglia da solo.»

Quell'idea lo fece ridere, e poi continuò a raccontare in tutti i particolari la sua conversazione col giudice, e

quanto fosse rimasto scosso e offeso, il giudice, a scoprire che c'era un codardo nella sua famiglia. Alzò gli occhi e restò

scosso anche lui. Il petto ansimante di rabbia repressa, Roxana lo guardava dall'alto, con uno sprezzo smisurato dipinto

sul volto.

«E tu, ti sei rifiutato di fare la prova con uno che ti aveva dato un calcio, invece di acchiappare l'occasione? E

neanche vergogna senti, di venirlo a dire a me, che ho partorito uno schifoso coniglio come te! Puah! Da vomitare mi

viene! È il negro che c'è in te, ecco che cos'è! Trentuno parti di te sono bianche e una parte sola è negra, e quella povera

piccola parte è la tua anima. E non vale la pena che si salva, e neanche che si prende una pala e si butta nella fogna. La

tua nascita, hai disonorato. Il tuo papà che può dire di te. Di sicuro, si starà a rivoltare nella tomba.»

Le ultime tre frasi fecero infuriare Tom: se suo padre fosse stato vivo, se fosse stato possibile assassinarlo, sua

madre avrebbe fatto presto a capire che lui, Tom, aveva un'idea ben precisa del suo debito verso quell'uomo, e che era

pronto a saldarlo fino all'ultimo, e lo avrebbe fatto, anche a rischio della vita. Ma si tenne per sé questi pensieri: era più

saggio, visto l'umore della madre.

«Il tuo sangue Essex, che fine gli hai fatto fare? È una cosa che non riesco a capire. E non è solo sangue Essex,

quello che hai dentro, neanche per niente! Il mio trisavolo e il tuo bis -trisavolo, il vecchio capitano John Smith, era il

sangue più nobile che è mai uscito fuori dalla vecchia Virginia, e la sua bisnonna, o roba del genere, Pocahontas era, la

regina indiana, e suo marito era un re negro dell'Africa, - e invece eccoti qua che ti tiri indietro da un duello, e tutti i

nostri antenati disonori come un cane bastardo! Sì, è il negro che è in te!»

Si sedette sulla cassetta da candele e si abbandonò ai propri pensieri. Tom non la disturbò. Poteva anche

difettare di prudenza, a volte, ma non in una circostanza come questa. A poco a poco la tempesta che aveva sconvolto

Roxana si placò, ma ce ne volle prima che svanisse del tutto, e anche quando pareva che fosse finita, esplodeva in

qualche tuono lontano per così dire, sotto forma di esclamazioni soffocate. Una fu: «E così poco negro che neppure

nelle unghie gli si vede e sì che non ce ne serve molto - ce ne ha giusto tanto quanto basta a colorargli l'anima.»

Poi mormorò: «Sissignore, abbastanza da colorare un ditale pieno...» Finalmente i borbottii cessarono e il viso

le si schiarì, con gran sollievo di Tom, che conosceva bene il suo temperamento mutevole e capiva che adesso stava

ritornando di buon umore. Notò che di tanto in tanto si portava le dita alla punta del naso. Guardò meglio e le disse:

«Mammy, come mai hai la punta del naso scorticata?»

Lei scoppiò in una di quelle risate fragorose di cui Dio, nella sua perfezione, accordò il privilegio solo agli

angeli beati in Paradiso e ai tartassati schiavi negri sulla terra, e disse:

«Al diavolo quel duello. Mi ci son trovata in mezzo anch'io.»

«Ma no! è stata una pallottola, allora?»

«Sissignore, proprio così.»

«Non è possibile! Ma come è successo?»

«È successo così; me ne stavo seduta qui, dormicchiavo al buio quando... ssss... bang... uno sparo proprio

laggiù. All'altro capo della casa me ne corro per vedere che stava succedendo, e guardo dalla finestra, quella dalla parte

di Wilson lo Svitato dove non ci sono le tende - ma quanto a questo nessuna finestra ce le ha - e me ne sto lì al buio a

guardare fuori, e là, alla luce della luna, proprio sotto a me, ci sta uno dei gemelli che bestemmia - mica tanto, ma un po'

bestemmia - era quello bruno che bestemmiava, perché alla spalla era ferito. E il dottor Claypool appresso a lui tutto

affaccendato e Wilson lo Svitato che lo aiutava, e il vecchio giudice Driscoll e Pem Howard se ne stavano in piedi un

po' più in là a aspettare che quelli erano pronti un'altra volta. E quelli si mettono d'accordo e gli danno voce, e allora

bang bang i colpi partono e il gemello dice ahi! A una mano lo aveva colpito questa volta - e sento il proiettile fare

«ciac» contro la legna che sta sotto la finestra, e quando ancora sparano il gemello dice ahi! e pure io, perché il

proiettile sulla guancia lo colpisce, e me ne corro di qua, da questo lato della finestra, a guardare e «zff», proprio sulla

faccia me lo sento passare, e mi spela il naso - se stavo un mezzo centimetro più in là il naso me lo staccava e rimanevo

sfregiata. Il proiettile eccolo qua, l'ho trovato.»

«Te ne sei stata lì tutto il tempo?»

«Che razza di domanda! E che altro dovevo fare? Che, capita tutti i giorni che ti vedi un duello?»

«Ma come, eri proprio sulla linea di tiro! Non avevi paura?»

La donna sbuffò sprezzante.

«Paura! Gli Smith Pocahontas di niente tengono paura, figuriamoci dei proiettili!»

«Sì, hanno coraggio da vendere, quello che gli manca è il cervello. Io, non ci sarei rimasto, lì!»

«Nessuno ti sta a accusare.»

«Non c'è stato nessun altro ferito?»

«Come no! Tutti feriti siamo rimasti, meno che il gemello biondo e il dottore e i secondi. Il giudice non è stato

colpito, ma ho sentito che lo Svitato diceva che il proiettile gli aveva strappato via un po' di capelli.»

«Per la miseria!» si disse Tom. «Stavo quasi per liberarmi dei miei guai e ho fallito per meno di un centimetro!

Oh Dio Dio, ora lui vivrà e scoprirà tutto e mi venderà a qualche mercante di schiavi; oh, sì, lo farebbe senza pensarci

sopra neanche un secondo.»

Poi ad alta voce disse:.34

«Mamma, stiamo in un bel pasticcio.»

Roxana trattenne il fiato, e poi disse:

«Figlio! Ma perché mi dai questi colpi? Che è successo?»

«Beh, c'è una cosa che non ti ho detto. Quando mi sono rifiutato di battermi, lui ha stracciato di nuovo il

testamento, e...»

La faccia di Roxana si fece di un pallore mortale, mentre diceva:

«Adesso bello che fritto sei! E per sempre! È la fine. Moriremo di fame tutti e due...»

«Aspetta, e stammi a sentire. Credo che quando lui si è deciso a battersi per me abbia pensato che poteva

restare ucciso senza la possibilità di perdonarmi, così ha fatto testamento un'altra volta, e io l'ho visto, e tutto è a posto.

Ma...»

«Oh, Dio sia lodato, allora siamo salvi! Salvi. E allora perché te ne sei uscito con quelle terribili...»

«Aspetta, ti dico, lasciami finire. Il bottino che ho fatto non pagherà neppure metà dei debiti, e non passerà

molto tempo che i creditori... beh, lo sai quello che succederà.»

Roxana abbassò il mento e disse al figlio di non disturbarla: doveva pensarci su. Poco dopo disse

solennemente:

«Ora molto attento te ne devi stare, te lo dico io! Ecco quello che devi fare: lui non l'hanno ammazzato, e se tu

gliene dai il più piccolo motivo, il testamento lo ristrappa, e per sempre. Adesso sta a sentire. Tu gli devi mostrare

quello che sei capace, da oggi in poi devi startene buono come un angelo, e devi fare in modo che lui se ne accorge e ti

ridà fiducia e devi mostrarti gentile con la vecchia zia Pratt, lei il giudice la sta molto a sentire, lei è l'amica migliore che

tieni. Poi a St. Louis te ne vai, e questo te lo fa diventare amico. Poi vieni a patti con quella gente. Gli dici che a lui non

gli resta tanto da campare - e del resto è la verità - e gli dici che gli paghi gli interessi, anzi interessi grossi, dieci per...

come si dice?»

«Il dieci per cento mensile?»

«Ecco. Poi ti metti a vendere un poco alla volta il tuo malloppo, così ci paghi gli interessi. Quanto può

durare?»

«Credo che ce ne sia per cinque o sei mesi di interessi.»

«Allora stai a posto. Se non muore fra sei mesi, poco importa, la Provvidenza provvederà. Se ti sai comportare

bene, sei salvo.» Poi lo guardò con occhio severo e aggiunse: «E bene ti comporterai... Capito?»

Lui rise e disse che in ogni caso ci avrebbe provato. Ma lei non mollò. Disse, grave:

«Non è questione che ci provi. Lo fai. Neanche uno spillo rubi più, ora, perché è pericoloso, e coi cattivi

compagni non ci vai neanche una volta, capito? E neanche un goccio, bevi - non un solo goccio - e neanche una partita

sola giochi. E non è questione che ci provi a non farlo: è quello che fai. E te lo dico io come, così: io ti vengo dietro a

St. Louis, e tu ogni giorno vieni da me e ti guardo dritto dentro agli occhi, e se fai una mancanza, una sola, ti giuro che

torno subito qui e al giudice gli dico che sei un negro e uno schiavo, gli porto le prove!» Fece una pausa perché le sue

parole avessero maggiore effetto. Poi aggiunse:

«Chambers, tu mi credi quando ti dico queste cose?»

Ora Tom si era fatto serio. Nessuna fatuità nella sua voce quando rispose:

«Sì, mamma. Ora lo so che sono cambiato e per sempre. Per sempre e al di là di ogni tentazione umana.»

«Allora vattene a casa e comincia.»

XV

Niente ha bisogno di essere riformato quanto le abitudini degli altri.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Dice lo stolto: «Non mettere tutte le uova in un paniere solo»: è un modo come un altro per dire a Disperdi il tuo denaro

e la tua attenzione.» Ma il saggio dice: «Metti tutte le uova in un paniere ma... sorveglia il paniere.»

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Che giornate si stavano vivendo a Dawson's Landing! Da sempre era stata una cittadina sonnacchiosa, ma ora

aveva a malapena il tempo di schiacciare un pisolino, tanto rapidamente si succedevano uno dopo l'altro grossi

avvenimenti e incredibili sorprese: venerdì mattina, prima occhiata alla vera nobiltà, e anche grande ricevimento dalla

zia Patsy Cooper e anche grande rapina; venerdì sera, calcione in grande stile all'erede del primo cittadino, presenti

quattrocento persone; sabato mattina, debutto in qualità di avvocato, di Wilson lo Svitato, da gran tempo rimasto nel

dimenticatoio; sabato sera, duello fra il primo cittadino e il titolato forestiero.

Probabilmente la gente si sentiva più fiera del duello che di tutti gli altri avvenimenti messi insieme. Era una

gloria per la città che una simile cosa fosse accaduta proprio lì. A giudizio di ciascuno i contendenti avevano toccato il

vertice dell'onore. Tutti s'inchinavano al loro nome; le loro lodi erano su tutte le bocche. Anche i padrini dei duellanti si

presero la loro parte di pubblica approvazione, per cui Wilson lo Svitato divenne di punto in bianco un personaggio

importante. Il sabato sera, quando gli era stato chiesto di porre la sua candidatura alla carica di sindaco, rischiava di.35

essere battuto, ma la domenica mattina il suo successo era assicurato.

Il prestigio dei gemelli era più grande che mai e la città li accols e con entusiasmo nel suo seno. Un giorno dopo

l'altro, una sera dopo l'altra, andavano di casa in casa, invitati a cena oppure in visita, facendosi nuovi amici, ampliando

e consolidando la loro popolarità, incantando e meravigliando tutti coi loro virtuosismi musicali e, dotati com'erano di

un bagaglio di rare e curiose cognizioni, conquistandosi nuova fama con la dimostrazione di quel che sapevano fare in

altri campi. Erano così felici che, con regolare preavviso di trenta giorni, iniziarono le pratiche per ottenere la

cittadinanza di Dawson's Landing, decisi a finire i loro giorni in quella amena località. Fu un trionfo. La comunità

entusiasta si alzò come un solo uomo ad applaudire, e quando poi i gemelli furono invitati a porre la loro candidatura

come assessori nel prossimo consiglio comunale, e accettarono, il giubilo popolare fu completo e totale.

Tutto questo non rallegrava affatto Tom Driscoll, il quale, anzi, ne soffriva fin nel profondo. Odiava il gemello

che lo aveva preso a calci, e l'altro per essere fratello del primo.

Di tanto in tanto la gente si chiedeva perché non si sapesse più nulla del ladro né del pugnale rubato né del

resto del bottino, ma nessuno sapeva far luce sull'affare. Era già trascorsa quasi una settimana e il mistero permaneva.

Il sabato l'agente Blake e Wilson lo Svitato si incontrarono per la strada, e Tom Driscoll li raggiunse in tempo

per dare l'avvio alla conversazione. Disse a Blake: «Non ha una buona cera, Blake; sembra seccato. C'è qualcosa che

non va nelle sue indagini? Credo che lei vanti, e a ragione, una buona reputazione, come investigatore, non è così?»

Blake restò lusingato e lo diede a vedere; ma Tom aggiunse: «Per essere un investigatore di paese...» E Blake, tutt'altro

che lusingato, non solo lo diede a vedere ma col tono della voce tradì il proprio disappunto.

«Sissignore, ce l'ho una reputazione; ed è valida quanto quella di chiunque altro del mestiere, paese o non

paese.»

«Oh, chiedo scusa; non intendevo offendere nessuno. Volevo solo chiedere se si sapeva nulla della vecchia che

ha saccheggiato la città, sa, quella mezza ingobbita. Aveva detto che l'avrebbe presa, e io ne ero sicuro, perché lei ha

fama di non vantarsi mai e... Beh, insomma, l'ha presa, la vecchia?»

«Al diavolo la vecchia!»

«Ma no! Non mi dirà che non l'ha presa!»

«No, non l'ho presa. Se c'era uno che poteva prenderla ero io, ma di fatto è una cosa impossibile a chiunque,

non importa chi.»

«Mi dispiace davvero... per lei; perché se si sparge la voce che un poliziotto si è espresso con tanta sicurezza e

poi...»

«Non si preoccupi, ecco tutto... Non si preoccupi; e in quanto agli altri cittadini, neanche loro devono

preoccuparsi. La vecchia è mia... Stia tranquillo, sono sulle sue tracce; ho certi indizi che...»

«Ottimo! E se poi riuscisse a farsi mandare qualche veterano della polizia di St. Louis ad aiutarla a scoprire il

significato di questi indizi e dove conducono...»

«Sono abbastanza veterano anch'io e non ho bisogno di nessun aiuto. Nel giro di una sett... di un mese, l'ho

presa, posso anche giurarlo.»

Tom disse con aria indifferente:

«Bene bene bene bene... Ma da quel che capisco è piuttosto vecchia, e non sempre i vecchi tengono il passo

con gli investigatori di professione che, intenti a raccogliere indizi, si trovano praticamente a un punto morto: può

succedere che muoiano prima.»

La faccia di Blake arrossì alla battuta sarcastica, ma prima che gli riuscisse di formulare una risposta, Tom si

era rivolto a Wilson e stava dicendo con voce e modi placidi e indifferenti:

«Chi se l'è presa la ricompensa, Svitato?»

Wilson fece una leggera smorfia e capi che era venuto il suo turno.

«Quale ricompensa?»

«Ma come, la ricompensa per il ladro e quella per il pugnale.»

Wilson rispose, e a giudicare dall'esitazione con cui si espresse doveva sentirsi a disagio:

«Beh... il fatto è... che nessuno l'ha ancora reclamata.»

Tom apparve sorpreso.

«Ma davvero?»

Wilson rispose alquanto irritato:

«Sì, davvero. Perché?»

«Oh, niente. Soltanto, credevo che ti fossi fatto venire qualche idea, e avessi escogitato un sistema capace di

rivoluzionare gli antiquati e logori metodi del...» S'interruppe volgendosi verso Blake il quale era ben felice che un altro

avesse preso il suo posto sulla graticola. «Dica un po', Blake. Sbaglio o Wilson le lasciò intendere che lei non avrebbe

avuto bisogno di dar la caccia alla vecchia?»

«Per Giove! Aveva detto che nel giro di tre giorni avrebbe preso e la vecchia e il bottino... E vero, l'ha detto,

per la miseria! Ed è già passata una settimana. E io l'avevo detto che nessun ladro e nessun compare del ladro avrebbe

venduto o impegnato niente, sapendo che lo strozzino si sarebbe beccato tutte e due le ricompense e agguantato in un

colpo solo ladro e bottino. Mai sentita un'idea più balorda!»

«Cambierebbe parere,» disse Wilson con fare brusco e irritato, «se conoscesse l'intera faccenda, anziché una

parte soltanto.»

«Mah,» fece il poliziotto in tono meditabondo, «ho visto subito che il piano non avrebbe funzionato, e fino.36

adesso ho avuto ragione.»

«Io direi di dargli un'altra chance. In fondo non ha funzionato peggio dei suoi metodi. Non crede?»

Il poliziotto non trovò niente da ribattere, per cui sbuffò con aria seccata e tacque.

Dopo la sera in cui Wilson aveva in parte svelato il suo piano, Tom aveva tentato per giorni di indovinare il

resto, ma senza riuscirvi. Poi gli era venuto in mente di sottoporre il problema all'astuta Roxana. Aveva inventato un

caso immaginario e gliel'aveva esposto. Lei ci aveva pensato e aveva espresso il suo verdetto. Tom s'era detto: «Ha

colpito nel segno, ne sono sicuro!» Così ora pensò di verificare la validità di quel verdetto e disse, in tono meditabondo,

osservando il viso di Wilson:

«Wilson, tu non sei uno sciocco: questo è stato appurato di recente. Qualunque fosse il tuo piano, aveva un

senso, anche se Blake è di parere contrario. Non ti chiedo di rivelarmelo, ti sottoporrò solo un caso ipotetico, un caso

che servirà come punto di partenza per quello a cui voglio arrivare. Non ti chiedo altro. Tu hai offerto cinquecento

dollari per il pugnale e cinquecento per il ladro. Supponiamo così, per amore di discussione, che la prima ricompensa

sia resa pubblica e la seconda venga offerta con lettera riservata ai diversi monti di pegno...»

Blake si dette una manata sulla coscia e urlò:

«Per Giove, l'ha messo nel sacco, Svitato! Com'è che non ci sono arrivato io o qualunque altro scemo?»

Wilson si disse: «Chiunque, con un cervello appena appena funzionante, avrebbe potuto arrivarci. Non mi

sorprende che Blake non ci abbia pensato; piuttosto sono sorpreso che ci abbia pensato Tom. Ha più intelligenza di

quanto si supponga.» Ma non disse nulla ad alta voce, e Tom continuò:

«Benissimo. Il ladro, non sospettando nessuna trappola, porta o manda il pugnale, e dice che lo ha comprato

per una manciata di fave, o che lo ha trovato per strada, o qualcosa del genere, e tenta di riscuotere la ricompensa e

viene arrestato: non è vero?»

«Sì,» disse Wilson.

«Lo credo anch'io,» disse Tom. «Non ci sono dubbi. Hai mai visto il pugnale?»

«No.»

«L'ha visto qualche tuo amico?»

«No, che io sappia.»

«Bene, comincio a capire perché il tuo piano è fallito.»

«Che vuoi dire, Tom? Dove vuoi arrivare?» chiese Wilson sempre più a disagio.

«Ma è chiaro: per me il pugnale non esiste.»

«Senta, Wilson,» disse Blake. «Tom Driscoll ha ragione, ci scommetterei mille dollari... se li avessi.»

Il sangue di Wilson ribollì; si chiese se quei forestieri non si fossero fatti gioco di lui; sembrava proprio così.

Ma che ci avrebbero guadagnato, chiese a Tom. Il giovane rispose:

«Guadagnato? Niente che avrebbe valore per te, forse. Ma loro sono dei forestieri che vogliono farsi strada in

una nuova comunità. Ti sembra niente spacciarsi per i beniamini di un principe orientale, e gratis? Ti sembra niente

abbagliare questa cittadina con ricompense da mille dollari, senza tirar fuori un soldo? Wilson, quel pugnale non esiste,

altrimenti il tuo piano lo avrebbe fatto saltar fuori. O, se esiste, sta ancora in mano loro. Per conto mio, credo che i

gemelli abbiano visto un'arma del genere: Angelo ha disegnato il pugnale con troppa facilità per esserselo inventato.

Naturalmente non potrei giurare che non lo abbiano anche posseduto. Ma di una cosa mi farei garante, ed è che se lo

avevano con sé quando sono arrivati in città, ce l'hanno ancora.»

Blake commentò:

«Così come la mette Tom, sembra una cosa ragionevole; non c'è dubbio.»

Tom fece per avviarsi, poi si voltò e disse:

«Scovi la vecchia, Blake, e se non ha addosso il coltello, vada a perquisire i gemelli!»

Poi se ne andò a passi lenti. Wilson si sentiva molto depresso. Non sapeva che pensare. Non voleva togliere la

propria fiducia ai gemelli, e non intendeva farlo in base a un indizio tanto vago; ma... bene, ci avrebbe pensato sopra e

avrebbe deciso il da farsi.

«E lei che ne pensa, Blake?»

«Beh, Svitato, devo ammettere che sono d'accordo con Tom. O il pugnale non ce l'hanno mai avuto; o, se ce

l'avevano, ce l'hanno ancora.»

I due si separarono. Wilson si disse:

«Per me, l'avevano; se fosse stato rubato, col mio piano si sarebbe ritrovato; questo è certo. Per cui credo che

lo abbiano ancora.»

Tom non aveva in mente nessun fine preciso, quando aveva incontrato Wilson e Blake. Aveva cominciato a

parlare così, tanto per stuzzicarli e ridere un po' alle loro spalle. Ma quando se ne andò, il suo morale era alle stelle:

perché per puro caso, e senza alcuno sforzo, aveva ottenuto molte cose piacevoli: aveva punto sul vivo quei due e li

aveva visti sobbalzare; aveva minato la fiducia che Wilson nutriva per i gemelli lasciandogli in bocca un sapore amaro

di cui non si sarebbe liberato tanto presto; e, meglio di tutto, aveva fatto scendere di un gradino la popolarità degli odiati

gemelli presso la comunità; perché Blake, da buon poliziotto di paese, sarebbe andato in giro a spettegolare, e di lì a una

settimana tutti, a Dawson's Landing, avrebbero riso sotto i baffi pensando alla spettacolare ricompensa che quei due

avevano offerto per un oggetto che forse non avevano posseduto mai, o che non avevano perduto. Tom era soddisfatto

di sé.

Per tutta la settimana il comportamento di Tom, in casa, era stato perfetto. Lo zio e la zia non avevano mai.37

visto nulla di simile. Non riuscivano a trovargli neppure un difetto.

Il sabato sera disse al giudice:

«C'è qualcosa che mi assilla, zio, e dal momento che sto per andarmene e che forse non ti rivedrò più, non

reggo a tenerla per me. Ti ho fatto credere di aver avuto paura a misurarmi con quell'avventuriero italiano. In un modo o

nell'altro dovevo tirarmene fuori e forse, preso alla sprovvista, ho scelto la via sbagliata, ma nessun uomo d'onore

avrebbe acconsentito a misurarsi con lui sapendo quello che so io.»

«Davvero? E cioè?»

«Il conte Luigi è un assassino confesso.»

«Incredibile!»

«È assolutamente vero. Wilson l'ha scoperto leggendogli la mano, e lo ha accusato, e l'ha messo tanto alle

strette che lui ha dovuto confessare; ma entrambi i gemelli ci hanno supplicato in ginocchio di mantenere il segreto,

giurando che qui avrebbero condotto una vita ineccepibile; il tutto era così patetico che abbiamo dato la parola d'onore

che fintanto avessero mantenuto la promessa non li avremmo smascherati. Lo avresti fatto anche tu, zio.»

«È vero, ragazzo mio, l'avrei fatto. Il segreto di un uomo è sua proprietà, ed è sacro, quando gli viene estorto di

sorpresa. Hai fatto quel che dovevi, e sono fiero di te.» Poi aggiunse, accorato: «Ma avrei preferito che mi fosse stata

risparmiata la vergogna d'incontrarmi con un assassino sul campo dell'onore.»

«Non c'era niente da fare, zio. Se avessi saputo che lo avresti sfidato, mi sarei sentito obbligato a venir meno

alla parola data per evitare lo scontro, ma non si poteva pretendere che Wilson facesse altrettanto.»

«Oh no, Wilson ha fatto bene, e non è da biasimare in alcun modo. Tom, Tom, mi hai tolto un gran peso dal

cuore; mi sentivo straziare l'anima al pensiero di avere un codardo in famiglia.»

«Puoi immaginare quel che è costato a me, addossarmi quel ruolo, zio.»

«Oh, lo so, mio povero ragazzo, lo so. E posso capire quanto ti sia costato portare quell'ingiusto marchio per

tanto tempo, ma ora tutto è a posto, ogni male è passato. Mi hai ridato la tranquillità e hai ritrovato la tua; abbiamo

sofferto a sufficienza tutti e due.»

Il vecchio rimase seduto per un po', immerso nei suoi pensieri; poi alzò il capo e, con gli occhi che gli

brillavano di soddisfazione, disse: «Che questo assassino mi abbia fatto l'affronto d'incontrarsi con me sul campo

dell'onore, come se fosse un gentiluomo, è una faccenda che sistemerò ben presto: non ora, comunque. No, non gli

sparerò fin dopo le elezioni. Ma c'è un modo di rovinare quei due prima, e sarà la prima cosa cui mi dedicherò. Non

verranno eletti, né l'uno né l'altro, te lo garantisco. Sei sicuro che la cosa non sia trapelata in giro, che nessuno sappia

che quel conte Luigi è un assassino?»

«Certissimo, zio.»

«Sarà una carta vincente. Il giorno delle votazioni butterò là un accenno, dalla tribuna elettorale. Gli scaverà il

terreno sotto ai piedi, a tutti e due.»

«Senza dubbio, sarà la loro fine.»

«Sì, ma bisognerà anche darsi da fare con gli elettori. Ecco, tu dovresti venir qui, di tanto in tanto, a spargere la

voce tra la marmaglia. Ti servirà del denaro, e io te lo fornirò.»

Ecco un altro punto di vantaggio sugli odiati gemelli. Per Tom quella era indubbiamente una gran giornata.

Così si sentì incoraggiato a sparare un ultimo colpo al medesimo bersaglio.

«Sai quel meraviglioso pugnale indiano, di cui i gemelli si sono tanto vantati? Beh, non ce n'è traccia; così in

città si comincia a ghignare, a ridere e a spettegolare. Metà della gente crede che non lo abbiano mai posseduto; l'altra

metà crede che l'abbiano avuto e l'abbiano tuttora. Oggi ho sentito una ventina di persone fare discorsi del genere.»

Sì, la settimana-senza-macchia di Tom gli aveva restituito i favori della zia e dello zio. Anche la madre era

contenta di lui. Dentro di sé cominciava a credere di amarlo, ma non glielo disse. Gli disse che ora doveva andare a St.

Louis; lei lo avrebbe seguito. Poi fracassò la sua bottiglia di whisky esclamando:

«Ecco qua! Dritto ti farò rigare, Chambers, e così ti dico che non riceverai dei cattivi esempi dalla tua mammy.

Ti ho detto che non devi frequentare le cattive compagnie. Beh, visto che starai in compagnia mia, mi tocca rigare dritta

anche a me. Su, vai adesso, fila!»

Quella notte stessa Tom s'imbarcò su uno dei grandi vapori in transito col grosso fardello della refurtiva, e

dormì il sonno dell'ingiusto, che è più sereno e profondo dell'altro, come sappiamo dalle cronache della vigilia,

dell'impiccagione di milioni di furfanti. Ma quando al mattino si svegliò, la fortuna gli aveva voltato di nuovo le spalle:

un altro ladro lo aveva derubato nel sonno ed era sbarcato a uno degli scali intermedi.

XVI

Se raccogli un cane affamato e lo rimpinzi ben bene, non ti morde. Questa è la differenza fondamentale tra cani e

uomini.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Sappiamo tutto sulle abitudini della formica, sappiamo tutto sulle abitudini dell'ape, ma non sappiamo nulla sulle.38

abitudini dell'ostrica. Sembra accertato che abbiamo scelto il momento meno adatto per studiare le ostriche.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Quando arrivò, Roxana trovò il figlio in un tale stato di disperazione e di angoscia che il suo cuore si

commosse e il suo istinto materno si risvegliò più forte che mai. Adesso era rovinato, senza speranza; il disastro era

sicuro e imminente; sarebbe diventato un reietto privo di amici. Non erano motivi sufficienti perché una madre amasse

il proprio figlio? E così lei lo amò, e glielo disse. Lui reagì con una smorfia, perché lei era una «negra» e il fatto che

anche lui lo fosse era ben lungi dal farlo riconciliare con quella razza disprezzata.

Roxana lo sommerse di tenerezze, alle quali lui rispose come meglio seppe, sentendosi a disagio. Cercava di

consolarlo, ma non era possibile. Ben presto quelle moine gli riuscirono insopportabili e, dopo un'ora, decise di farsi

coraggio e di dirle che la smettesse o almeno si moderasse. Ma aveva paura di lei. Infine sopravvenne una pausa, perché

Roxy aveva cominciato a riflettere: cercava di formulare un piano per salvarlo. Dopo un po' si riscosse e disse che aveva

trovato una via d'uscita. A quella notizia insperata Tom si senti soffocare di gioia. Roxana disse:

«Il piano eccolo qua e non può essere che non riesce. Io sono una negra, e nessuno che mi sente parlare lo può

dubitare. Valgo seicento dollari. Prendimi e vendimi e salda questi giocatori.»

Tom rimase di sasso. Non era neanche sicuro di aver capito bene. Per un istante restò muto, poi disse:

«Vuoi dire che ti faresti vendere come schiava per salvarmi?»

«Non sei figlio mio? Non lo sai che non c'è niente che una madre non può fare per il figlio suo? Non c'è niente

che le madri bianche non fanno per i figli loro. Chi le ha fatte cosi? Il Signore le ha fatte cosi. E chi ha fatto le negre? Il

Signore le ha fatte. Dentro di loro tutte le madri sono uguali. Il buon Dio le ha fatte cosi. Io mi faccio vendere come

schiava, e tra un anno tu ricompri la tua mammy e la liberi di nuovo. Ti faccio vedere io come. Questo è il mio piano.»

Le speranze di Tom cominciarono a rinascere, e con esse il suo buonumore. Disse:

«È molto bello da parte tua, mammy... È davvero...»

«Dillo ancora! E continua, continua a dirlo! È tutto quello che uno può desiderare a questo mondo e anche di

più. Il Signore ti benedica, dolcezza; quando mi toccherà servire da schiava e quelli mi maltratteranno, se so che da

qualche parte tu continui a dirlo, tutte le piaghe si sanano e io riesco a sopportarle.»

«Certo che te lo ripeto, mammy, e continuerò a ripeterlo. Ma come faccio a venderti? Adesso tu sei libera.»

«Sai che differenza! I bianchi non ci vanno mica tanto per il sottile! Per legge mi possono vendere subito, se

mi dicono di lasciare lo Stato fra sei mesi e io mi rifiuto. Prepara un certificato - un atto di vendita - e fa vedere che è

stato fatto laggiù, da qualche parte, nel centro del "Kentak" e ci firmi su qualche nome, e dici che mi vendi a poco

prezzo perché tieni preoccupazioni di soldi; vedrai che non provi nessun fastidio. Poi mi porti su al nord, in campagna e

mi vendi in una fattoria. Quella gente non si mette a fare domande, se mi può avere a poco prezzo.»

Tom falsificò un atto di vendita e vendette sua madre a valle del fiume a un piantatore di cotone dell'Arkansas,

per poco più di seicento dollari. Esitava a commettere quel tradimento, ma il caso gli mise tra i piedi quel tizio e si trovò

risparmiata la fatica di andare al Nord in cerca di un compratore, col rischio di dover rispondere a una quantità di

domande, mentre quel piantatore fu così contento di Roxy che non chiese quasi niente. Per di più il piantatore ripeteva

che dapprincipio Roxy non avrebbe capito dove si trovava, e quando lo avesse scoperto si sarebbe già abituata. E Tom

si disse che era un gran vantaggio per Roxy ritrovarsi un padrone che dimostrava di essere tanto contento di lei, e quel

piantatore chiaramente lo era. Così, con tutta disinvoltura, arrivò ben presto a convincersi di aver reso a Roxy uno

splendido servizio, vendendola a sua insaputa a valle del fiume. E poi continuava a ripetersi: «È solo per un anno. Fra

un anno pago e la libero; questo pensiero la terrà serena.» Sì, quel piccolo inganno non poteva fare alcun male, e alla

fine tutto si sarebbe aggiustato nel modo migliore. Secondo l'accordo preso, in presenza di Roxy si parlò esclusivamente

della fattoria «su nel Nord», e della piacevolezza del luogo, e di quanto fossero felici gli schiavi; così la povera Roxy fu

ingannata in pieno, e senza fatica, perché non si sarebbe mai sognata che suo figlio potesse rendersi colpevole di

tradimento verso una madre che ritornando volontariamente alla schiavitù, non importa se mite o spietata, se breve o

lunga, faceva per lui un sacrificio paragonato al quale quello della vita era ben povera cosa. In privato sparse fiumi di

lacrime e lo coprì di carezze affettuose, poi se ne andò col suo padrone: se ne andò col cuore a pezzi, eppure fiera di

quel che aveva fatto, e felice di avere avuto l'occasione di farlo.

Tom pagò i suoi debiti e decise di attenersi scrupolosamente ai suoi propositi di riabilitazione e di non mettere

mai più in pericolo il testamento. Gli erano rimasti trecento dollari. Secondo il piano di sua madre doveva metterli al

sicuro e aggiungervi la metà del suo mensile. In capo a un anno questo gruzzolo l'avrebbe resa di nuovo libera.

Per tutta una settimana non riuscì a dormire bene, tanto la mascalzonata fatta alla madre gli turbava quello

straccio di coscienza; ma in seguito cominciò a sentirsi di nuovo a suo agio, e riuscì a dormire come qualunque altro

furfante.

Il piroscafo partì da St. Louis alle quattro del pomeriggio, e Roxy rimase dritta sul ponte inferiore di poppa a

guardare Tom attraverso un velo di lacrime, finché l'immagine di lui dileguò nella ressa e scomparve; poi non guardò

più. Si mise seduta lì su un rotolo di funi e pianse fino a sera inoltrata. Quando finalmente si ritirò nella sua fetida

cuccetta di terza classe, in mezzo al fragore delle macchine, non fu per dormire ma per attendere il mattino e, nell'attesa,

abbandonarsi al suo dolore.

S'erano immaginati che lei «non capisse» e credesse di risalire il fiume. Proprio lei! Lei che sul fiume aveva

navigato per anni! All'alba si alzò e, irrequieta, tornò sul ponte e andò a sedersi di nuovo sul rotolo di funi. Passò molti.39

tronchi conficcati nel fondo del fiume, dove il frangersi delle acque avrebbe potuto rivelarle cose da spezzarle il cuore,

mostrandole che la corrente andava nella stessa direzione del piroscafo; ma i suoi pensieri erano altrove, e non se ne

accorse. Alla fine, però, un fragore più forte e più vicino la scosse dal suo torpore; alzò gli occhi e il suo sguardo

esperto si volse al moto rivelatore dei flutti. Per un istante restò a fissarli, impietrita. Poi lasciò cadere la testa sul petto e

disse:

«Oh che il Buon Signore Iddio abbia pietà di me, povera peccatrice... mi ha venduta giù al fiume

XVII

Anche la popolarità ha i suoi limiti. A Roma, sulle prime, sei pieno di rimpianto perché Michelangelo è morto; ma col

passare del tempo rimpiangi soltanto di non averlo visto morire.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

4 luglio - Le statistiche dimostrano che in questo giorno scompaiono più imbecilli che non in tutti gli altri giorni

dell'anno messi insieme. Se ne deduce, stando al numero dei superstiti, che un solo quattro luglio all'anno è ormai

insufficiente, visto l'incremento della popolazione.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Le settimane estive si trascinarono lentamente, poi si aprì la campagna elettorale. Si aprì in modo piuttosto

acceso, e si andò surriscaldando di giorno in giorno. I gemelli ci si buttarono con impeto, perché ne andava di mezzo il

loro prestigio. La loro popolarità, dapprima vastissima, si era poi attenuata, soprattutto perché erano stati troppo

popolari, e questo aveva comportato una reazione naturale. Inoltre qualcuno aveva messo in giro la voce che era curioso

- sì, proprio curioso - che quel loro straordinario pugnale non fosse saltato fuori, se era tanto di valore o se era mai

esistito. E alle voci si accompagnavano sogghigni, gomitate, strizzatine d'occhio: tutte cose che hanno il loro effetto. I

gemelli pensavano che un loro successo elettorale potesse riportarli in auge, mentre una sconfitta avrebbe provocato

danni irreparabili. Perciò lavoravano sodo, ma non più sodo di quanto lavorassero il giudice Driscoll e Tom contro di

loro negli ultimi giorni della campagna elettorale. Per due mesi interi il comportamento di Tom si era mantenuto così

perfetto che suo zio non solo gli affidò il denaro col quale persuadere i votanti, ma gli permetteva di attingerlo di

persona alla cassaforte del suo salottino privato.

Il comizio di chiusura della campagna elettorale fu tenuto dal giudice Driscoll, il quale attaccò i due forestieri.

Fu disastrosamente efficace. Rovesciò su di loro fiumi di ridicolo tra le risate e gli applausi della folla in ascolto. Si fece

beffe dei gemelli chiamandoli avventurieri, ciarlatani, pagliacci, fenomeni da baraccone; attaccò i loro titoli altisonanti

con scherno smisurato; disse che erano barbieri di paese camuffati da aristocratici, venditori di noccioline mascherati da

gentiluomini, suonatori d'organetto senza la solita scimmietta. Alla fine tacque e attese. Attese finché il silenzio,

all'intorno, si fece assoluto, carico di aspettativa, poi inferse il colpo di grazia; lo inferse con gelida serietà e

determinazione, con un'enfasi significativa nelle ultime parole: disse che a suo avviso la ricompensa offerta per il

pugnale perduto era una fandonia e una spacconata, e che il suo proprietario avrebbe saputo dove trovarlo quando gli si

fosse offerta l'occasione di assassinare qualcuno.

Poi scese dal podio lasciandosi dietro un silenzio attonito e solenne in luogo dell'usuale esplosione di slogans e

applausi.

La strana frase fece il giro di tutta la città e suscitò una straordinaria impressione. Tutti si domandavano: «Che

cosa avrà voluto dire?» e tutti continuarono a farsi quella domanda, ma invano; perché il giudice aggiunse soltanto che

sapeva lui quel che diceva, e si fermò lì; Tom affermò di non avere idea di quel che lo zio avesse inteso dire; e Wilson,

quando gli chiedevano che cosa ne pensava, invertiva la domanda chiedendo al suo interlocutore che cosa ne pensava

lui.

Wilson venne eletto, e i gemelli furono battuti, anzi, schiacciati, e restarono abbandonati e quasi senza amici.

Tom tornò tutto felice a St. Louis.

Dawson's Landing si prese una settimana di riposo: ne aveva proprio bisogno. Il suo era comunque un clima

d'attesa perché correvano insistenti voci di un nuovo duello. Le fatiche elettorali avevano stremato il giudice Driscoll,

ma si diceva che non appena si fosse rimesso abbastanza da raccogliere una sfida, l'avrebbe ricevuta dal conte Luigi.

Dopo quell'umiliazione i fratelli non comparvero più in pubblico e restarono in disparte a leccarsi le ferite.

Evitavano la gente e uscivano per fare un poco di moto solo a tarda sera, quando le strade erano deserte.

XVIII

Gratitudine e inganno non sono che le due estremità della stessa processione. Quando la banda e i notabili in tenuta di

gala sono passati, avete visto tutto quello per cui valeva la pena di restare.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato.40

Giornata del Ringraziamento. Ed ora leviamo tutti insieme il nostro umile, sincero e vivo ringraziamento; tutti tranne i

tacchini. Fra gli antropofagi delle isole Figi non si usano i tacchini, si usano gli idraulici. Ma non sta bene né per me né

per voi farci beffe delle Figi.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Il venerdì dopo le elezioni, a St. Louis pioveva. Piovve tutto il giorno, e piovve forte, forse con l'intenzione di

lavare quella città nera di fuliggine, ma ovviamente senza riuscirci. Verso mezzanotte Tom Driscoll rincasò da teatro

sotto una pioggia torrenziale, chiuse l'ombrello ed entrò nel portone; ma mentre stava per chiuderlo, vide che c'era

un'altra persona che entrava: senza dubbio un altro inquilino. La persona chiuse il portone e salì le scale dietro Tom.

Questi trovò a tastoni la porta della propria stanza, entrò e accese la lampada a gas. Quando si girò fischiettando, vide la

schiena di un uomo. L'uomo stava chiudendo a chiave la porta. Il fischio gli mori sulle labbra, e fu colto da un senso di

profonda inquietudine. L'uomo si voltò, un mucchio di stracci fradici di pioggia e sgocciolanti, e mostrò un muso nero

sotto un cappellaccio sbilenco. Tom era terrorizzato. Voleva ordinargli di andarsene, ma le parole non gli venivano, e fu

l'altro a parlare per primo. Disse a voce bassa:

«Zitto... sono tua madre!»

Tom si accasciò su una sedia e ansimò:

«Sono stato perfido e vile... lo so; ma l'ho fatto per il meglio, davvero... Io giuro.»

Per un po' Roxana rimase dritta e muta a guardarlo mentre lui si contorceva in preda alla vergogna e balbettava

autoaccuse miste a patetici tentativi di spiegare e attenuare il suo misfatto; poi si mise seduta, si tolse il cappello, e la

massa scompigliata dei capelli castani le si sciolse giù per le spalle.

«Non è tuo il merito se non mi sono fatta grigia,» disse tristemente, guardandosi i capelli.

«Lo so, lo so! Sono un mascalzone. Ma ti giuro che l'ho fatto per il meglio. È stato un errore, naturalmente, ma

credevo fosse per il meglio, davvero.»

Roxy prese a piangere piano e a poco a poco le parole si fecero strada in mezzo ai singhiozzi. Il tono era

lamentoso, più che irato.

«Vendere una persona giù al fiume - giù al fiume! - e credere che è per il meglio! Neanche un cane si tratta

così! Tutta rotta sono, e distrutta, adesso, e mi sa che non ce la faccio neanche a reagire come facevo un tempo quando

mi picchiavano e maltrattavano. Non so... ma forse è così. Sta di fatto che tanto ho patito che m'è più facile piangere che

urlare.»

Queste parole avrebbero dovuto commuovere Tom Driscoll, ma nel caso specifico quel sentimento fu certo

superato da un altro più forte, un sentimento che gli tolse di dosso il gran peso della paura, colmando la sua anima

meschina di un gran senso di sollievo. Ma rimase prudentemente zitto, e non tentò alcun commento. Seguì un lungo

intervallo di silenzio, durante il quale gli unici suoni erano lo scroscio della pioggia sui vetri, il sospiro e il gemito del

vento e, di tanto in tanto, un soffocato singhiozzo di Roxana. I singhiozzi si fecero a poco a poco più radi e infine

cessarono. Poi la fuggitiva riprese a parlare.

«Abbassala un poco, la luce. Ancora. Ancora. Un altro po'. Chi è inseguito non ama la luce. Ecco, così va

bene. Riesco a vederti, e questo basta. Ti racconto la mia storia e la faccio più breve possibile, e poi ti dico quello che

devi fare. Quell'uomo che mi ha comprata non è un uomo malvagio, è abbastanza buono, per essere un piantatore; e se

poteva fare a modo suo, diventavo la serva della sua famiglia e stavo bene; ma sua moglie, quella è una yank, e neanche

bella a vedersi, e mi s'è messa contro dal primo momento; così allora mi hanno mandato, nel quartiere negro, tra gli

schiavi comuni, a lavorare nei campi di cotone. Ma quella non si sentiva sazia neanche così, e mi mette contro il

sorvegliante; perché era gelosa e odiosa; così il sorvegliante all'alba mi faceva alzare e mi faceva lavorare tutto il giorno

finché durava un filo di luce; e tante frustate mi sono beccata perché non tenevo abbastanza forza per lavorare. Quel

sorvegliante anche lui era uno yank del New England, e tutti, nel Sud, te lo possono dire che cosa significa. Loro sì che

sanno come si fa lavorare un negro fino a farlo crepare, e sanno come frustarlo - frustarlo finché si ritrova la schiena a

rigoni come una tavola per lavare i panni. Da principio il mio padrone ha detto una buona parola per me al sorvegliante,

ma è stato peggio perché la padrona l'ha scoperto e dopo, ogni volta che mi voltavo me le buscavo: non avevo più

tregua.»

Il cuore di Tom s'infiammò... di collera contro la moglie del piantatore, e disse fra sé: «Se non fosse stato per

quell'impicciona tutto sarebbe andato bene.» E imprecò contro di lei con rabbiosa violenza.

Al chiarore abbagliante di un lampo che proprio allora illuminò a giorno la stanza semibuia, Roxy scorse il

volto del giovane, vi lesse lo sdegno che vi era dipinto. Ne gioì... ne gioì e gliene fu grata; quell'espressione, non stava

forse a dimostrare che il ragazzo era capace di soffrire per i torti fatti a sua madre e di provare risentimento verso i suoi

persecutori? Una cosa di cui aveva dubitato. Fu uno sprazzo di felicità, solo uno sprazzo, e svanì subito precipitandola

nuovamente nelle tenebre. Perché si disse: «Mi ha venduto giù al fiume... questi sentimenti non gli dureranno a lungo...

passeranno subito.» Poi riprese il suo racconto.

«Dieci giorni fa, più o meno, mi sono detta che più di qualche settimana non potevo durare tanto ero distrutta

dal lavoro terribile e dalle frustate, e così disperata e infelice. E non me ne importava neanche più: la vita non valeva

più niente se cosi dovevo continuare. Beh, quando uno sta in quello stato d'animo che gliene importa di quello che fa?

Ci stava una negretta malaticcia, avrà avuto dieci anni, che era stata buona con me, e non aveva una mammy, poveretta,

e io le volevo bene e lei voleva bene a me; beh, si presenta mentre stavo lavorando e teneva una patata arrostita e voleva.41

darmela - togliendosela di bocca, capisci, perché sapeva che il sorvegliante non mi dava abbastanza da mangiare - e lui

l'ha scoperta e gli ha dato una bastonata sulla schiena col suo bastone che era grosso come un manico di scopa, e lei è

caduta per terra urlando, e si torceva e nella polvere come un ragno che è rimasto senza gambe. Io non l'ho sopportato.

Tutto il fuoco dell'inferno che dentro mi tenevo è scoppiato; gli ho levato il bastone dalle mani e l'ho steso a terra; lui a

terra è rimasto, che si lamentava e imprecava, tutto forsennato capisci, e i negri erano spaventati a morte. Tutti intorno

gli si sono riuniti per aiutarlo e io sul suo cavallo sono saltata e ho preso la via del fiume scappando come il vento.

Sapevo che cosa mi capitava: appena era guarito quello si metteva di punta ad ammazzarmi di fatica se il padrone glielo

permetteva; oppure se non faceva questo mi vendevano ancora più in giù al fiume, che è la stessa cosa. Così ho deciso

che mi annegavo e mettevo fine ai guai miei. Era quasi buio. In due minuti ho raggiunto il fiume. Poi ho visto una canoa

e mi sono detta che non c'era ragione che mi annegavo finché non era proprio necessario; così ho legato il cavallo a un

tronco e ho preso la canoa e ho cominciato a scendere il fiume; mi tenevo al riparo sotto l'argine ripido e pregavo che

veniva presto notte. Avevo un grosso vantaggio perché la grande casa stava a tre miglia lontana dal fiume e c'erano solo

i muli da fatica per arrivarci, e soltanto negri per montarli, e loro non ci mettevano certo premura, mi davano tutto il

vantaggio che potevano. Prima che qualcuno andava fino alla casa e ritornava, era troppo scuro, e non ce la facevano

più fino alla mattina a vedere le impronte del cavallo e scoprire da che parte ero andata, e i negri di sicuro dicevano tutte

le bugie possibili e immaginabili sulla faccenda.

«Beh, è venuta notte e io ho continuato a scendere il fiume. Ho remato per più di due ore, poi non mi sono più

data pena, così ho smesso di remare e mi sono lasciata andare con la corrente, pensando a quello che potevo fare se

proprio non era necessario che mi annegavo. Ho fatto piani, e me li sono rigirati nella testa, mentre andavo. Beh, era

passata da poco la mezzanotte, credo, e io avevo fatto una ventina di miglia, quando vedo le luci di un vapore fermo

vicino all'argine, dove non c'era né città né scalo, e presto vedo la forma dei fumaioli contro le stelle e allora, diomio,

non ho retto più nella pelle dalla felicità! Era il Grand Mogul... sono stata cameriera su quella nave per otto stagioni,

sulla rotta Cincinnati-New Orleans. Mi sono avvicinata - non un'anima che si muoveva - ho sentito martellare nella

camera macchine e ho capito che cosa era successo. Una delle macchine s'era rotta. Sono scesa a terra a lato della nave

e ho lasciato andare la canoa, poi mi sono avvicinata e c'era una passerella abbassata e io sono salita a bordo. Faceva un

gran caldo tremendo, e i mozzi e gli scaricatori erano addormentati tutti torno torno al castello di prua; il secondo, Jim

Bangs, se ne stava seduto lì sulle bitte a testa bassa, addormentato, perché è così che il secondo di bordo fa la guardia! E

il vecchio nostromo, Billy Hatch, lui stava ciondolando come i suoi compagni; e io li conoscevo tutti; e, Dio, come mi

sembravano belli! Mi sono detta: che il vecchio padrone venga qui adesso e ci provi a portarmi via - benedetti, sono tra

amici, io. Così mi sono fatta strada in mezzo a loro, e sono salita sul ponte e indietro fino a prua dove ci sta la cabina

delle donne, e mi sono seduta lì sulla stessa sedia dove mi ero seduta cento milioni di volte; e a casa mia mi sono

sentita, te lo assicuro!

«Dopo un'ora ho sentito suonare la campana che dava il via, e poi la manfrina è cominciata; e subito il gong ho

sentito suonare: "Macchina indietro," mi dico, "la conosco bene questa musica." Ancora il gong, mi dico: "Macchina

avanti." Ancora il gong. "Vira di bordo." 0ramai siamo diretti a St. Louis e io sono fuori dai guai e non mi voglio più

annegare. Sapevo che adesso il Mogul stava sulla rotta di St. Louis, capisci. Era giorno chiaro quando siamo passati

vicino alla piantagione e io ho visto tanti tanti negri e bianchi che mi davano la caccia su e giù lungo la riva e si davano

un gran da fare, ma a me non me ne importava più mente di loro.

«Intanto Sally Jackson, che una volta era sotto di me e ora è capocameriera, giù era scesa, e quando mi ha visto

è stata tutta contenta e così tutti gli ufficiali, e io gli ho raccontato che ero stata rubata e giù al fiume venduta, e loro

venti dollari hanno raccolto e me li hanno dati e Sally mi ha dato un bel vestito, e quando sono arrivata subito sono

andata dove tu una volta abitavi e poi sono venuta qui e mi hanno detto che eri via ma che da un giorno all'altro ti

aspettavano; così non ho osato andare giù a Dawson's Landing perché tenevo paura che non c'incontravamo.

«Beh, lunedì scorso passo davanti a uno di quei posti nella Quarta Strada dove si mettono gli avvisi per i negri

scappati, e dove ti aiutano a ritrovarli, e che mi venga un colpo se non vedo il mio padrone! Per poco non cado a terra,

mi sono sentita morire. Mi voltava la schiena e intanto parlava con un uomo e gli dava dei fogli-avvisi di negri scappati,

certo, e io ero la negra. Offre una ricompensa, ecco. E così o no?»

In preda a un terrore sempre più intenso, Tom si disse: «Sono finito, qualunque cosa accada! Quell'uomo mi ha

detto che, secondo lui, c'era qualcosa di losco nella vendita. Ha detto di avere in mano una lettera di un passeggero del

Grand Mogul in cui si diceva che Roxy era arrivata qui con quel vapore e che a bordo tutti erano al corrente della sua

storia; il fatto che sia venuta qui invece di scappare in uno stato anti-schiavista mi rende sospetto, dice, e se non gliela

trovo, e presto anche, mi metterà nei guai. Non ci avevo creduto a quella storia; non potevo immaginarla così sorda a

tutti gli istinti materni da venire qui, sapendo che rischiava di mettermi in un irrimediabile pasticcio; e invece eccola! E

io, stupido, che ho giurato al piantatore che l'avrei aiutato a trovarla, pensando che una cosa del genere si poteva ben

promettere senza correre rischi. Se mi azzardo a consegnargliela, lei... lei... ma come posso fare altrimenti? O la

consegno o pago, e dove lo trovo il denaro per pagare? Io... io... beh, forse se mi giurasse che d'ora in poi la tratterà

bene (e l'ha detto lei stessa che è un brav'uomo) e se mi giurasse che non permetterà che la facciano lavorare troppo o

non le diano abbastanza da mangiare, o...»

Un lampo illuminò il pallido viso di Tom, rigido e tirato da quei pensieri tormentosi. E si udì la voce di

Roxana, aspra, ma con una punta di apprensione:

«Alza la luce, che posso vedere la tua faccia. Così, fatti dare un'occhiata. Chambers, sei bianco come la tua

camicia! Hai forse veduto quell'uomo? Ti è forse venuto a cercare?».42

«S... sì.»

«Quando?»

«Lunedì a mezzogiorno.»

«Lunedì a mezzogiorno! Mi stava cercando?»

«Lui..., credeva di trovarti qui. Cioè, lo sperava. Ecco l'avviso che hai visto.» Lo tirò fuori dalla tasca.

«Leggimelo!»

Ansimava, in preda all'agitazione, e c'era una luce tetra nei suoi occhi che Tom non riusciva a interpretare con

sicurezza ma che gli parve minacciosa. L'avviso recava la solita rossa xilografia di una negra in fuga col turbante in

capo e, sulle spalle il tradizionale fagotto assicurato a un bastone, e la scritta, a lettere cubitali «Taglia di cento dollari».

Tom lesse ad alta voce l'avviso - o per lo meno la parte che descriveva Roxana e che dava le generalità del proprietario

e il suo indirizzo di St. Louis e quello dell'agenzia della Quarta Strada. Ma omise di leggere la frase in cui si diceva che

le richieste per la riscossione della taglia potevano essere indirizzate anche a Tom Driscoll.

«Dammi quel foglio!»

Tom l'aveva piegato e se lo stava mettendo in tasca. Sentì un brivido corrergli giù per la schiena, ma disse con

la massima naturalezza:

«L'avviso? Ma che te ne fai, dal momento che non sai leggere. A che ti serve?»

«Dammi quel foglio!» Tom glielo dette, ma con una riluttanza che non riuscì a dissimulare del tutto. «Me lo

hai letto tutto?»

«Certo.»

«Alza la mano e giurarlo.»

Tom eseguì. Roxana piegò il foglio con cura e se lo mise in tasca sempre tenendo gli occhi fissi sul viso di

Tom. Poi disse:

«Stai mentendo.»

«E perché dovrei mentire?»

«Non lo so, ma è così. Per lo meno è quello che penso. Ma non fa niente. Quando ho visto quell'uomo, tanta di

quella paura ho sentito che a malapena ce la facevo a camminare. Poi ho dato un dollaro a un negro in cambio di questi

vestiti, e da allora non sono più stata dentro una casa né di giorno né di notte. Mi sono tinta la faccia di nero e di giorno

mi sono tenuta nascosta nella cantina di una vecchia casa bruciata e di notte sono andata alla banchina del fiume dove

stanno i barili di zucchero e i sacchi di grano, per rubare qualcosa da mangiare; e mai mi sono azzardata a comprarmi

niente e sono mezza morta dalla fame. E mai mi sono esposta a venire qui fino a questa sera che piove e che in giro non

c'è quasi nessuno. Ma stasera me ne sono rimasta in piedi nel vicolo buio da quando si è fatta notte, e aspettavo che tu

passavi. Ed eccomi qui.»

Rifletté un po', poi disse:

«Quell'uomo l'hai visto a mezzogiorno, lunedì scorso?»

«Sì.»

«Io l'ho visto a metà pomeriggio. E così è venuto a cercarti?»

«Sì.»

«E l'avviso te l'ha dato allora?»

«No, non l'aveva ancora fatto stampare.»

Roxana gli lanciò un'occhiata sospettosa.

«Sei stato tu che l'hai aiutato a preparare l'avviso?»

Tom imprecò contro se stesso per lo stupido errore che si era lasciato scappare e cercò di porvi rimedio

dicendo che no, ora ricordava; era stato a mezzogiorno di lunedì che l'uomo gli aveva dato l'avviso. Roxana disse:

«Ecco che stai mentendo di nuovo.» Poi si raddrizzò e puntò l'indice contro di lui.

«Adesso sentimi bene. Ti faccio una domanda e voglio vedere come te la cavi. Tu sapevi che lui mi cercava; e

se scappavi invece di startene qui ad aiutarlo capiva che in questa faccenda c'era qualcosa di storto e allora faceva

indagini sul conto tuo e quelle dritto da tuo zio lo portavano, e tuo zio leggeva l'avviso e vedeva che tu una negra libera

avevi venduto, giù al fiume, e tu lo conosci, il giudice! Faceva a pezzi il testamento e ti cacciava di casa. Allora adesso

rispondi a questa domanda: non hai forse detto a quell'uomo che io di sicuro venivo qui e che tu facevi in modo di farmi

beccare?»

Tom si disse che a questo punto né le menzogne né le proteste potevano più aiutarlo. La trappola era scattata

stringendolo in una morsa senza scampo. Il volto gli prese un'espressione cattiva e dopo un po' disse con un ghigno:

«Beh, che altro potevo fare? Lo vedi da te che mi teneva in pugno e non potevo cavarmela altrimenti.»

Roxy lo fulminò con un'occhiata sprezzante:

«Che potevi fare? Come Giuda hai fatto e con tua madre, per salvare la tua pellaccia! Chi lo crederebbe? No

neanche un cane! Sei il più basso, miserabile bastardo che mai al mondo è venuto! E sono io la responsabile di tutto!» E

gli sputò in faccia.

Lui non tentò neppure di risentirsi. Roxy rifletté un momento, poi disse:

«Te lo dico io, adesso, che cosa fai. Dai a quell'uomo il denaro che hai messo da parte, e lo fai aspettare finché

puoi andare dal giudice a prendere il resto per pagare il mio riscatto.»

«Diavolo! Che ti viene in mente? Andare da lui a chiedergli trecento dollari e più? E secondo te per che cosa

gli dovrei dire che li voglio?».43

La risposta di Roxy fu pronunciata con voce serena e calma:

«Gli dici che mi hai venduta per pagare i tuoi debiti di gioco; e che mi hai ingannata e ti sei comportato da

mascalzone; e che io ti ho chiesto di procurarti il denaro per riscattarmi.»

«Ma tu sei impazzita! Farebbe subito a pezzi il testamento. Lo sai, no?»

«Sì, lo so.»

«E credi che io sia talmente idiota da andare da lui? Di', lo credi?»

«Non è che lo credo: lo so! Lo so perché tu sai che se non ti procuri quel denaro, ci vado io in persona, e allora

vende te giù al fiume, e così vedi quanto ti piace!»

Tom si alzò tremante ed eccitato, e c'era una luce malvagia nei suoi occhi. Si avviò alla porta dicendo che

doveva uscire per un momento da quella stanza soffocante per schiarirsi il cervello con l'aria fresca e decidere sul da

farsi. Ma la porta non si apriva. Roxy sogghignò e disse:

«Ce l'ho io la chiave, dolcezza... Statti seduto. Non hai bisogno di schiarirti il cervello su quello che c'è da fare.

Lo so io, quello che c'è da fare.» Tom sedette e si passò le mani nei capelli con gesto smarrito e disperato. Roxy disse:

«E in questa casa, quell'uomo?»

Tom la guardò sorpreso e chiese:

«Che cosa te lo fa pensare?»

«Tu. Andare fuori a schiarirsi il cervello! Per prima cosa un cervello da schiarire non ce l'hai e, secondo, i tuoi

occhi ti hanno tradito. Sei il più basso, miserabile bastardo che mai... ma questo te l'ho già detto. Allora, oggi è venerdì.

Puoi metterti d'accordo con quell'uomo e gli dici che ti vai a procurare il resto del denaro e che sei di ritorno martedì

prossimo o forse mercoledì. Capito?»

Tom rispose mestamente:

«Sì.»

«E quando tieni l'atto di vendita che mi rivende a me stessa, lo prendi e lo mandi per posta a Wilson lo Svitato,

e ci scrivi sul dietro che lo deve conservare finché non vado da lui. Capito?»

«Sì.»

«È tutto. Prendi l'ombrello e mettiti il cappello.»

«Perché?»

«Perché mi devi accompagnare alla banchina. Lo vedi questo coltello? Dietro me lo sono portato, dal giorno

che ho visto quell'uomo, e me lo sono comprato insieme a questi stracci. Se mi prendeva, con questo mi ammazzavo. E

ora andiamo, cammina piano, e fammi strada; e se dai l'allarme in casa, o se qualcuno ti si avvicina per strada, te lo

ficco in corpo. Chambers, mi credi quando ti dico questo?»

«È inutile che mi secchi con questa domanda. Lo so che mantieni la parola.»

«Sì, non sono come te, io. Spegni, e muoviti. Eccoti la chiave.»

Nessuno li seguì. Tom tremava a ogni nottambulo che gli si avvicinava per strada, aspettandosi quasi di sentirsi

la lama gelida nella schiena. Roxy gli stava alle calcagna, vicinissima. Dopo un miglio di strada giunsero a uno spiazzo

vuoto, sulla banchina deserta, e in quel deserto buio e piovoso si separarono.

Mentre si avviava verso casa la mente di Tom era piena di pensieri tetri e di folli progetti; ma alla fine si disse,

esausto:

«C'è una sola via di scampo. Devo seguire il suo piano. Ma con una variante: non mi rovinerò, chiedendogli il

denaro; lo deruberò, quel vecchio spilorcio.»

XIX

Poche cose sono più insopportabili del fastidio che dà un buon esempio.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Non sarebbe affatto meglio se tutti la pensassimo allo stesso modo; è dalla differenza di opinioni che nascono le corse

dei cavalli.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Dawson's Landing stava quietamente terminando il suo periodo di imperturbato riposo e attendeva con

pazienza il duello. Anche il conte Luigi attendeva; ma non con pazienza, si diceva in giro. Giunse la domenica e Luigi

insistette perché venisse recapitato il suo cartello di sfida. Così Wilson si recò dal giudice Driscoll. Ma il giudice rifiutò

di battersi con un assassino. «Intendo,» aggiunse in tono significativo, «sul campo dell'onore.»

Altrove, naturalmente, sarebbe stato prontissimo. Wilson tentò di convincerlo che se fosse stato presente

quando Angelo aveva parlato dell'omicidio commesso da Luigi, non avrebbe considerato disonorevole quell'azione; ma

il vecchio ostinato fu irremovibile.

Wilson tornò dallo sfidante a riferire il fallimento della missione, e Luigi, offesissimo, chiese come mai il

vecchio gentiluomo, che era tutt'altro che stupido, facesse maggior conto della testimonianza di un farfallone come suo

nipote che della parola di Wilson. Ma Wilson rise e disse:.44

«È molto semplice e facile da spiegarsi. Io non sono il suo idolo, il suo bebè, la sua passione: suo nipote sì. Il

giudice e la sua defunta consorte non hanno avuto figli e avevano passato la mezza età quando questo tesoro gli è

piovuto in grembo. Bisogna pur considerare l'istinto paterno, rimasto inappagato per venticinque o trent'anni. Dopo

tanto tempo diviene famelico, insaziato e insaziabile, e un uomo si soddisfa con la prima cosa che gli capita sotto mano;

il suo gusto si è atrofizzato, e non sa riconoscere la sardina dallo sgombro. Una giovane coppia che metta al mondo un

demonio, prima o poi lo riconosce per tale, ma per una coppia anziana che adotti un demonio, questi è e sarà sempre un

angelo, accada quel che accada. Tom è l'angelo del vecchio gentiluomo, la sua infatuazione. Tom riesce a ficcargli in

testa idee di cui nessun altro riuscirebbe a persuaderlo: non tutte, non dico questo, ma molte sì. Particolarmente quelle

atte a creare o abolire parzialità e pregiudizi nella mente del giudice. Questi aveva simpatia per voi due, mentre Tom vi

ha portato subito un grande odio. Ciò è bastato perché il vecchio cambiasse idea di punto in bianco. Le più antiche e

solide amicizie possono crollare quando uno di questi tesorucci adottati tardivamente le colpisce con una sassata.»

«E una strana filosofia,» disse Luigi.

«Non è filosofia, è un fatto. E c'è qualcosa di patetico e bello in tutto questo. Non credo ci sia niente di più

patetico di quelle vecchie coppie senza figli che si prendono a cuore un serraglio di cagnetti urlanti; e poi ci aggiungono

qualche pappagallo che graffia e impreca, e un macaco ragliante, e poi un centinaio di assordanti canarini e qualche

fetido porcellino d'India o coniglio, e un harem di gatti, sforzandosi alla cieca e senza una direzione precisa di creare dal

vile metallo, dalla limatura d'ottone, per così dire, qualcosa che prenda il posto di quell'aureo tesoro negatogli da madre

natura: un figlio.

«Ma sto andando fuori del seminato. La legge non scritta di questo paese esige che lei uccida il giudice

Driscoll a vista. Ecco quanto egli stesso e la comunità si aspettano da lei. Ovvio che se fosse lei a cadere sotto i proiettili

del giudice, tutto sarebbe ugualmente "legale". Stia in guardia, dunque. È pronto, voglio dire, è armato?»

«Sì, avrà la sua occasione. Se mi attacca, rispondo.»

Mentre se ne andava, Wilson disse:

«Il giudice è ancora provato dalla campagna elettorale, e non uscirà prima di un giorno o due; quando lo farà,

dovrà stare sul chi vive.»

Verso le undici di sera i gemelli uscirono per fare un poco di moto, e si accinsero a una lunga passeggiata al

tenue chiarore della luna.

Circa mezz'ora prima, Tom Driscoll era sceso a Hackett's Store, due miglia a sud di Dawson's Landing, unico

passeggero diretto in quel luogo solitario; e, tornato a piedi per la strada lungo il fiume, era entrato in casa del giudice

Driscoll senza imbattersi in anima viva né per la via né dentro casa. Salì in camera sua, abbassò la tenda della finestra e

accese una candela. Si tolse giacca e cappello e iniziò i preparativi. Aprì il baule, tirò fuori da sotto i suoi abiti il

«guardaroba» femminile. Poi si annerì la faccia col sughero bruciato e si mise in tasca il sughero. Aveva progettato di

insinuarsi nel salottino privato dello zio, al piano di sotto, passare nella camera da letto, rubare la chiave della cassaforte

dagli abiti del vecchio, tornare indietro e svaligiare la cassaforte. Prese la candela e fece per avviarsi. Fino a quel

momento si era sentito pieno di coraggio e di sicurezza, ma adesso tanto l'uno che l'altra cominciavano a vacillare. E se

per caso avesse fatto rumore e si fosse fatto sorprendere magari nell'atto di aprire la cassaforte? Forse era meglio

scendere armato. Prese dal nascondiglio il pugnale indiano e sentì con soddisfazione che il coraggio gli stava tornando.

Sgusciò giù per le scale anguste con i capelli che gli si rizzavano in testa e il polso che si arrestava al minimo

scricchiolio. Quando fu a metà scala notò allarmato un barlume nell'anticamera sottostante. Che poteva significare? Che

suo zio fosse ancora alzato? No, non era verosimile; probabilmente aveva lasciato là il moccoletto da notte quando era

andato a letto. Riprese a scendere, fermandosi a ogni gradino, in ascolto. Trovò la porta aperta e guardò dentro. Quello

che vide lo rallegrò oltre misura. Suo zio dormiva sul sofà. Su un tavolinetto a capo del sofà una lampada si estingueva

lentamente, e lì accanto, chiusa, c'era la cassettina di ferro dove il vecchio teneva il denaro. Vicino alla cassettina c'era

una pila di banconote e un pezzo di carta coperto da cifre scritte a matita. Lo sportello della cassaforte non era aperto.

Certo il dormiente si era stancato mentre faceva i conti e stava riposando.

Tom posò la candela sulla scala e avanzò verso la pila di banconote camminando più curvo che poteva.

Quando passò vicino allo zio, il vecchio si mosse nel sonno, e Tom si fermò all'istante; si fermò e silenziosamente

estrasse il pugnale dal fodero, col cuore che gli batteva e gli occhi incollati sul volto del suo benefattore. Dopo un

minuto o due avanzò ancora di un passo, cautamente, allungò la mano, afferrò il denaro e lasciò cadere il fodero del

pugnale. Sentì la mano del vecchio che lo abbrancava e un urlo selvaggio «Aiuto! Aiuto!» gli risuonò nelle orecchie.

Senza un attimo di esitazione vibrò una pugnalata e fu libero. Alcune banconote gli sfuggirono dalla sinistra e caddero

sul pavimento, nel sangue, Tom lasciò cadere il pugnale, raccolse le banconote e si apprestò a fuggire; mise le

banconote assieme alle altre che teneva nella mano sinistra e, spaventato e confuso com'era, afferrò di nuovo il pugnale;

ma si riprese in tempo e lo scagliò lontano: non doveva portare con sé una testimonianza così pericolosa.

In un balzo fu all'uscio, lo chiuse dietro di sé, e arrivò alla scala. Riprese la candela e, mentre correva di sopra,

il silenzio della notte fu rotto da un suono di rapidi passi che si avvicinavano alla casa. Un attimo dopo Tom era in

camera sua, e i gemelli, sgomenti, stavano accanto al cadavere dell'uomo assassinato!

Tom s'infilò la giacca, l'abbottonò nascondendovi dentro il cappello, sopra indossò l'abito femminile, abbassò

la veletta del cappellino, soffiò sulla candela, chiuse a chiave la porta dalla quale era appena entrato, portandosi via la

chiave, passò dall'altra porta nel corridoio sul retro, chiuse a chiave anche quella e si tenne la chiave. Poi, a tentoni,

raggiunse la scala posteriore e scese. Prevedeva di non incontrare nessuno perché ora l'attenzione di tutti era concentrata

sull'altro lato della casa. I suoi calcoli si rivelarono esatti. Mentre lui attraversava il cortile sul retro, la signora Pratt, i.45

servi e una dozzina di vicini mezzo svestiti, avevano raggiunto i gemelli e il morto, e altri stavano arrivando alla porta

d'ingresso.

Tom, scosso da un fremito convulso, stava varcando il cancello, quando tre donne sopraggiunsero di corsa da

una casa di fronte. Lo incrociarono proprio sul cancello, chiedendogli cosa fosse successo, ma non aspettarono risposta.

Tom si dis se: «Queste vecchie zitelle hanno perso tempo a vestirsi; fecero lo stesso la notte che bruciò la casa degli

Stevens, qui accanto.» In pochi minuti fu alla casa stregata. Accese una candela e si tolse l'abito femminile. Aveva

larghe macchie di sangue su tutto il fianco sinistro, e anche la mano destra, che aveva tenuto strette le banconote, era

rossa del sangue di cui erano intrise; ma per il resto non recava altre tracce. Si pulì la mano sulla paglia, e si tolse il

nerofumo dal viso. Poi bruciò, fino a ridurli in cenere, i panni maschili e femminili, sparpagliò la cenere attorno, e si

camuffò da vagabondo. Spense la candela, scese di sotto, e poco dopo gironzolava già in riva al fiume con l'intento di a

prendere a prestito» e usare una delle trovate di Roxy . Scovò una canoa e remò seguendo la corrente. Poi, allo spuntare

dell'alba, lasciò andare la canoa alla deriva e continuò a piedi verso il villaggio successivo, dove si tenne nascosto fino

all'arrivo del vapore in transito e prese un passaggio di terza classe per St. Louis. Continuò a sentirsi a disagio fin

quando non si fu lasciato alle spalle Dawson's Landing; poi si disse: a Tutti gli investigatori del mondo non

riuscirebbero a rintracciarmi, adesso; non esiste il minimo indizio; quell'omicidio andrà ad aggiungersi alla lista misteri

insolubili, e la gente, fra cinquant'anni, cercherà ancora di venirne a capo.»

Il mattino seguente, a St. Louis, lesse sui giornali questo breve dispaccio telegrafico da Dawson's Landing:

Il giudice Driscoll, anziano e rispettato concittadino, è stato assassinato qui verso mezzanotte, da un dissoluto

nobile italiano o barbiere che sia, in seguito a una lite occasionata dalle recenti elezioni. Probabilmente l'assassino verrà

linciato.

«Uno dei gemelli!» si disse Tom. «Questa sì che si chiama fortuna! E stato il pugnale che gli ha reso questo bel

servizio. Non sappiamo mai quando la buona sorte decide di favorirci. E dire che ho maledetto Wilson lo Svitato dal

fondo del cuore per avermi reso impossibile la vendita del pugnale. Ritiro tutto, ora.» Ormai Tom era ricco e

indipendente. Si accordò col piantatore e spedì a Wilson il nuovo atto di vendita che vendeva Roxana a se stessa; poi

telegrafò alla zia Pratt:

Ho letto sui giornali la terribile notizia e sono distrutto dal dolore. Partirò oggi col postale. Cerca di farti forza

fino alla mia venuta.

Quando Wilson raggiunse la casa del delitto ed ebbe raccolto tutti i particolari che la signora Pratt e gli altri gli

seppero dare, nella sua qualità di sindaco prese il comando delle operazioni e ordinò che nulla fosse toccato e che ogni

cosa fosse lasciata al suo posto in attesa del giudice Robinson il quale, come magistrato inquirente, avrebbe preso le

misure del caso. Fece uscire tutti e rimase nella stanza insieme ai gemelli. Poi arrivò lo sceriffo e condusse i gemelli in

prigione. Wilson li esortò a farsi coraggio e promise che avrebbe fatto del suo meglio per difenderli quando la causa

fosse giunta in tribunale. Poco dopo arrivò il giudice Robinson e con lui l'agente Blake. Esaminarono la stanza

accuratamente e trovarono il pugnale e il fodero. Wilson notò che sul manico c'erano delle impronte. La cosa gli fece

piacere perché i gemelli avevano pregato le prime persone accorse di esaminare bene le loro mani e i loro abiti e né

quelle né Wilson vi avevano trovato tracce di sangue. Era dunque possibile che i gemelli avessero detto la verità,

dichiarando di aver trovato il vecchio già morto quando erano accorsi alle grida di aiuto? Pensò subito alla ragazza

misteriosa. Ma non era un delitto che potesse essere stato commesso da una ragazza. Comunque era indispensabile

perquisire la camera di Tom Driscoll.

Dopo che i giurati ebbero esaminato il cadavere e la stanza dove esso si trovava, Wilson suggerì una

perquisizione al piano superiore e salì con gli altri. Entrarono nella camera di Tom, forzando l'uscio, ma naturalmente

non trovarono nulla.

Con decisione concorde i giurati conclusero che l'omicidio era stato commesso da Luigi e che Angelo era il

suo complice.

La città si mostrò spietata con i due sfortunati, che i primi giorni dopo il delitto furono in costante pericolo di

essere linciati. Poi la Corte Suprema formalizzò l'accusa, e Luigi venne incriminato per omicidio di primo grado;

Angelo per complicità. I gemelli furono trasferiti dalla prigione locale a quella della contea, in attesa di giudizio.

Wilson esaminò le impronte digitali trovate sull'impugnatura del coltello e concluse: «Nessuno dei gemelli ha

lasciato queste impronte.» Dunque era chiaro che si trattava di qualcun altro che aveva agito per conto proprio o come

sicario.

Ma chi poteva essere? Doveva scoprirlo. La cassaforte non era stata aperta, la cassetta del denaro era chiusa e

conteneva tremila dollari. Quindi il movente non era stato la rapina ma la vendetta. Ma chi altro, all'infuori di Luigi,

poteva essere nemico dell'ucciso? Era lui l'unico che gli portasse rancore.

La ragazza misteriosa! Wilson non riusciva a venirne a capo. Se il movente fosse stato la rapina, si sarebbe

potuto pensare alla ragazza. Ma che una ragazza volesse togliere la vita a quel vecchio per vendetta - no, era

impossibile. Lui non si metteva con le ragazze. Era un gentiluomo.

Wilson era riuscito a rilevare le impronte digitali sull'impugnatura del pugnale: perfette. E tra i suoi vetrini

c'era una grande varietà d'impronte di donne e ragazze, raccolte negli ultimi quindici-diciotto anni; le esaminò una per.46

una, ma invano; nessuna corrispondeva alle impronte sul pugnale.

La presenza dell'arma sul luogo del delitto era una circostanza che turbava Wilson. Una settimana prima aveva

finito coll'ammettere che Luigi aveva posseduto un pugnale così e che lo possedeva ancora, anche se dava a intendere

che gli era stato rubato. E ora ecco il pugnale e insieme al pugnale i gemelli. Mezza città era stata certa che i gemelli

mentivano, asserendo di aver perduto il pugnale, e adesso tutta quella gente esclamava esultante: «Ve l'avevo detto io!»

Se sull'impugnatura ci fossero state le impronte dei gemelli... ma era inutile stare a far congetture. Le impronte

sull'impugnatura non erano le loro: questo lo sapeva perfettamente.

Quanto a Tom, Wilson lo escludeva senz'altro dagli indiziati; in primo luogo, Tom non era capace di

ammazzare nessuno: non aveva abbastanza grinta; in secondo luogo, anche se avesse potuto uccidere qualcuno, non

avrebbe scelto il suo affezionato benefattore e parente più prossimo; in terzo luogo, ciò sarebbe stato contrario al suo

interesse, perché fin tanto che lo zio era in vita Tom poteva contare oltre che su un generoso mantenimento, sulla

possibilità che il testamento distrutto venisse rifatto, possibilità che, scomparso lo zio, sarebbe a sua volta scomparsa.

Vero che, come adesso s'era chiarito, il testamento era già stato rifatto. Ma Tom non poteva saperlo, altrimenti ne

avrebbe parlato, data la sua natura ciarliera e per nulla riservata. E infine Tom si trovava a St. Louis al momento

dell'assassinio, e aveva avuto la notizia dai giornali, come attestava il telegramma inviato alla zia. Ma tutte queste erano,

più che argomentazioni chiaramente formulate e articolate, sensazioni confuse: Wilson avrebbe riso all'idea di collegare

Tom al delitto.

Invece la situazione dei gemelli gli appariva gravissima: anzi, disperata. Se non si fosse trovato un complice, si

diceva, un'illuminata giuria del Missouri li avrebbe fatti impiccare di certo; e, anche trovato il complice, le cose non

sarebbero poi andate meglio: ci sarebbe stata semplicemente una persona in più da impiccare. Solo la scoperta di una

persona che avesse commesso il delitto per conto proprio poteva salvare i gemelli: un'impresa che aveva tutta l'aria di

risultare impossibile. Eppure, bisognava trovare la persona che aveva lasciato le impronte digitali. Forse i gemelli non

l'avrebbero spuntata ugualmente, ma così, senza quella persona, erano spacciati.

Così Wilson continuò a rimuginare; pensa, ripensa, ipotizza, escogita, giorno e notte, senza arrivare a capo di

niente.

Ogni volta che s'imbatteva in una ragazza o in una donna sconosciuta, con qualche pretesto le prendeva le

impronte, e ogni volta che tornava a casa doveva constatare con rammarico che non coincidevano con le impronte del

pugnale.

Quanto alla ragazza misteriosa, Tom giurò di non conoscerla e di non ricordarsi di aver mai visto nessuna

donna con un vestito come quello descritto da Wilson. Ammise che non sempre chiudeva la sua camera a chiave, e che

talvolta i servi dimenticavano di chiudere le porte d'ingresso; comunque, a suo avviso, la ragazza doveva esser venuta

ben poche volte, altrimenti sarebbe stata scoperta. Quando Wilson tentò di collegarla con le rapine, ipotizzando che

avrebbe potuto essere una complice della vecchia, se non proprio la ladra travestita da vecchia, Tom apparve colpito e

anche molto interessato alla cosa, e disse che avrebbe tenuto gli occhi bene aperti, sebbene temesse che la donna (o la

ragazza) fosse troppo astuta per avventurarsi di nuovo in una città dove ognuno per un bel pezzo sarebbe stato all'erta.

Tutti avevano compassione di Tom che appariva così silenzioso e addolorato e sembrava soffrire

profondamente della perdita dello zio. Stava recitando, naturalmente, ma non del tutto. Nel buio della notte, quando era

sveglio, l'immagine del suo presunto zio, così come l'aveva vista l'ultima volta, gli si parava spesso davanti e anche

quando dormiva ricorreva nei suoi sogni. Si rifiutava di entrare nella stanza dove era avvenuta la tragedia. Questo

commosse la tenera signora Pratt, che «capiva ora, come non aveva mai capito prima», disse, di che pasta sensibile e

delicata fosse suo nipote, e quanto adorasse il suo povero zio.

XX

Perfino le più chiare e perfette prove indiziarie possono essere errate, per cui andrebbero considerate con cautela.

Prendete il caso di una matita qualsiasi, temperata da una donna qualsiasi; se avete dei testimoni, scoprirete che ha usato

un temperino; ma se prendete in considerazione soltanto l'aspetto della matita, direte che l'ha temperata con i denti.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Le settimane passavano, nessun amico andava a trovare i gemelli carcerati ad eccezione del loro avvocato e di

zia Patsy Cooper, e finalmente il giorno del processo arrivò, il giorno più duro della vita di Wilson, poiché nonostante le

sue indefesse ricerche, non era riuscito a trovare segno o traccia del complice mancante. «Complice» era il termine con

cui, dentro di sé, designava ormai da tempo quella persona: non perché fosse in assoluto il termine giusto, ma perché

c'era almeno la probabilità che fosse il più giusto, anche se non riusciva a capire perché i gemelli non fossero spariti o

fuggiti, come aveva fatto il loro complice, invece di rimanere presso il cadavere e di farsi cogliere sul fatto.

L'aula del tribunale naturalmente era gremita di gente, e così sarebbe rimasta fino alla fine, perché non solo a

Dawson's Landing ma in tutto il circondario, per parecchie miglia, il processo era diventato l'unico argomento di

conversazione. La signora Pratt, in gramaglie, e Tom con un nastro nero al cappello, sedevano vicino a Pembroke

Howard, Pubblico Ministero, e dietro di loro sedevano compatti gli amici di famiglia. I gemelli avevano una sola amica

in aula; la loro vecchia e afflitta padrona di casa, venuta a incoraggiare il loro avvocato. Sedeva vicino a Wilson, con.47

un'espressione più che mai bonaria. Nell' «angolo dei negri» c'erano Chambers e Roxy, tutta ben vestita e con in tasca il

suo atto di vendita. Era il suo più prezioso avere, e non se ne separava né di giorno né di notte. Tom le aveva assegnato

trentacinque dollari al mese, da quando era entrato in possesso del suo patrimonio, e aveva detto che sia lui che lei

dovevano essere grati ai gemelli che li avevano resi ricchi; ma questo discorsetto l'aveva mandata su tutte le furie, per

cui si era guardato bene dal ripeterlo una seconda volta. Roxy diceva che il vecchio giudice aveva trattato suo figlio

mille volte meglio di quanto meritasse, e a lei non aveva mai fatto altro che gentilezze, perciò odiava quei diavoli

stranieri che lo avevano ucciso, e non avrebbe dormito contenta finché non li avesse visti penzolare dalla corda. Era lì

per assistere al processo e al momento del verdetto avrebbe lanciato un bell'urrà, anche se per questo il giudice della

contea le avesse dato un anno di prigione. Erse il capo avvolto dal turbante e disse: «Quando viene la sentenza, mi

metto a far cagnara, ve lo dico io!»

Pembroke Howard descrisse brevemente il caso. Disse che avrebbe dimostrato, con una serie di prove

indiziarie ineccepibili, che il detenuto numero 1, quello alla sbarra, aveva commesso il delitto; che il movente era in

parte la vendetta e in parte il desiderio di sottrarsi al rischio di mettere a repentaglio la propria vita, e che il fratello, con

la sua presenza, era stato complice necessario di quello che era certo il più abominevole fra tutti i crimini, l'assassinio;

un delitto concepito dal più empio dei cuori e consumato dalla mano più abietta; un delitto che aveva spezzato il cuore

di una sorella amorevole, spento la felicità di un giovane nipote diletto come un figlio, causato un dolore inconsolabile a

molti amici, e una dolorosa, incolmabile perdita a tutta la comunità. La giustizia, oltraggiata, avrebbe chiesto il massimo

della pena, e a tale pena l'accusato alla sbarra non sarebbe sfuggito. Il Pubblico Ministero rimandava ogni ulteriore

commento alla requisitoria finale.

Quando sedette, Howard era molto commosso, come l'uditorio, del resto; la signora Pratt e molte altre signore

piangevano e parecchi sguardi, carichi d'odio, si puntarono sugli sventurati detenuti. I testi d'accusa furono chiamati a

deporre, l'uno dopo l'altro, e interrogati a lungo; il controinterrogatorio invece fu breve. Wilson sapeva che essi non

potevano fornirgli nessun dato di qualche utilità. La gente provava pena per lo Svitato; la sua carriera, appena agli

esordi, sarebbe stata danneggiata da questo processo.

Parecchi testimoni giurarono di aver sentito il giudice Driscoll dire nel suo discorso elettorale che i gemelli

avrebbero ritrovato il pugnale perduto quando ne avessero avuto bisogno per assassinare qualcuno. Non era una novità,

ma ora la frase appariva tristemente profetica e un brivido profondo scorse per l'aula silenziosa quando quelle lugubri

parole furono ripetute.

Il Pubblico Ministero si alzò e disse che, nel corso di una conversazione avuta col giudice Driscoll in quello

che era stato il suo ultimo giorno di vita, aveva appreso che l'avvocato difensore gli aveva portato una sfida

dell'imputato e che il giudice si era rifiutato di battersi con un assassino confesso - «di battersi sul campo dell'onore,

s'intende» - ma aveva aggiunto in tono significativo che era pronto a incontrarlo altrove. Presumibilmente l'imputato era

stato avvertito che avrebbe dovuto uccidere o rimanere ucciso la prima volta che avesse incontrato il giudice Driscoll.

Se l'avvocato difensore non aveva obiezioni a che ciò fosse messo a verbale, non lo avrebbe chiamato a deporre come

testimone.

«Nessuna obiezione,» disse Wilson. (Mormorii in aula: «Per Wilson si sta mettendo di male in peggio.»)

La signora Pratt testimoniò di non aver udito nessun urlo, e non seppe dire che cosa l'avesse svegliata, a meno

che non fosse stato il rumore di passi affrettati che si avvicinavano alla porta d'ingresso. Era saltata giù dal letto ed era

corsa, così com'era, nel vestibolo, e aveva udito i passi che salivano velocemente la gradinata esterna e poi la seguivano

mentre correva nel salottino. Lì aveva trovato gli imputati ritti accanto al corpo del fratello assassinato. (E qui

s'interruppe e scoppiò in singhiozzi. Sensazione nell'aula.) Quando fu di nuovo in grado di parlare, la signora Pratt disse

che le persone entrate dopo di lei erano il signor Rogers e il signor Buckstone.

Nel controinterrogatorio condotto da Wilson, la signora disse che i gemelli avevano protestato la loro

innocenza dichiarando di essere usciti per una passeggiata e di essere accorsi a un grido d'aiuto così alto e forte che lo

avevano udito a notevole distanza; e l'avevano supplicata, e con lei i signori già menzionati, di esaminare le loro mani e

i loro abiti, il che fu fatto, senza che venissero trovate tracce di sangue.

Rogers e Buckstone, interrogati, confermarono. Fu verificato il ritrovamento del pugnale e prodotto l'annuncio

che lo descriveva minuziosamente e offriva una ricompensa a chi lo trovasse, fu provata la sua esatta rispondenza a

quella descrizione. Seguirono dettagli di minore importanza, e la requisitoria terminò.

Wilson disse di avere tre testimoni: le signorine Clarkson, che avrebbero deposto di avere incontrato una

giovane velata che usciva dalla casa del giudice Driscoll dal cancello posteriore pochi minuti dopo che si erano udite le

grida d'aiuto. Le loro testimonianze, insieme a certe prove indiziarie che avrebbe sottoposto all'attenzione della Corte,

avrebbero, a suo avviso, convinto la giuria che c'era un'altra persona coinvolta nel delitto, e che non era stata ancora

trovata: pertanto, in nome della giustizia, il processo doveva essere sospeso fin tanto che non se ne scoprisse l'identità.

Dal momento che si era fatto tardi, chiese che l'interrogatorio dei tre testimoni fosse rinviato alla mattina seguente.

La folla si riversò fuori dall'aula e si allontanò a gruppi e a coppie, discutendo animatamente e con

appassionato interesse le varie fasi dell'udienza; e tutti avevano l'aria di avere ben speso la loro giornata, tutti tranne gli

accusati, l'avvocato difensore, e la loro vecchia amica. Non c'era niente di cui potessero rallegrarsi o in cui sperare.

Nel separarsi dai gemelli la zia Patsy augurò loro la buonanotte sforzandosi di mostrarsi gaia e fiduciosa, ma fu

costretta a interrompersi, sopraffatta dall'emozione.

Nonostante si ritenesse completamente al sicuro, la solenne apertura del processo aveva messo addosso a Tom

un senso di oppressione e di vago disagio, perché la sua natura era sensibile anche al minimo allarme; ma una volta che.48

la debolezza e l'inconsistenza della linea difensiva di Wilson furono manifeste, si sentì rinfrancato, perfino esultante.

Mentre lasciava l'aula, pensò allo Svitato con un misto di compatimento e di sarcasmo. «Le Clarkson hanno incontrato

una sconosciuta sul retro della casa...» disse fra sé. «Sai che roba! Gli do cent'anni per trovarla, la sconosciuta - anche

duecento, se vuole. Una donna che non esiste più, gli abiti addotti a prova del suo sesso bruciati, e le ceneri gettate al

vento - oh, la troverà facilmente, non c'è dubbio!» Queste riflessioni lo portarono ad ammirare, per la centesima volta,

l'acume e l'abilità con cui si era messo al sicuro contro il pericolo di essere identificato o minimamente sospettato.

«Quasi sempre, in casi del genere, c'è un dettaglio che sfugge, una piccolissima pista o traccia che uno si lascia

dietro: è questa che porta alla scoperta; ma qui non c'è ombra di traccia. Niente più di quella che lascia un uccello

volando per l'aria; anzi, volando di notte. Solo chi riuscisse a seguire la traccia di un uccello nell'aria, al buio, e a trovare

quell'uccello, potrebbe risalire fino a me e scoprire l'assassino del giudice. Per gli altri, nulla da fare! E di tutta la gente

che c'è al mondo, questo lavoro doveva toccare proprio al povero Svitato! Dio, sarà pateticamente buffo vederlo

arrancare e annaspare dietro a una donna che non esiste, avendo sotto il naso, tutto il tempo, la persona giusta!» Più ci

ripensava, più la cosa gli sembrava spassosa. Alla fine concluse: «Non gli darò pace, con quella donna. Ogni volta che

lo pesco in compagnia di qualcuno, fino al suo ultimo giorno, gli chiederò con quel mio tono candido e affettuoso che

tanto lo seccava quando gli domandavo notizie della sua abortita carriera legale: "Ancora sulle tracce di quella donna,

eh, Svitato?"» Aveva voglia di ridere, ma non era il caso perché c'era gente, e lui era in lutto per lo zio. Decise che

sarebbe stato divertente passare da Wilson quella sera stessa, osservarlo mentre si arrabattava sulla sua causa persa, e

punzecchiarlo di tanto in tanto con qualche esasperante parola comprensiva e pietosa.

Wilson non aveva voglia di cenare. Non aveva appetito. Tirò fuori tutte le impronte di ragazze e donne che

teneva nel suo schedario, e per più di un'ora le studiò e ristudiò cercando di convincersi che quelle della misteriosa

fanciulla dovevano pur esserci da qualche parte, lì in mezzo, e gli erano sfuggite. Ma non era così. Tirò indietro la sedia,

si prese la testa tra le mani e si abbandonò a pensieri aridi e cupi.

Tom Driscoll arrivò un'ora dopo che s'era fatto buio. Prese una sedia e, mentre si accomodava, disse ridendo

affabilmente:

«Ah, vedo che siamo tornati ai vecchi passatempi dei giorni in cui eravamo negletti e sconosciuti, tanto per

consolarci, vero?» E tirò su un vetrino e lo tenne controluce per scrutarlo. «Andiamo, fatti animo, vecchio mio, non vale

la pena di perdersi di coraggio e tornare a questi giochi puerili solo perché questa grossa macchia solare sta

attraversando il tuo nuovo astro fulgente. Passerà, e tutto tornerà a posto.» E posò il vetrino. «Ti credevi di vincere

sempre?»

«Oh no,» disse Wilson con un sospiro. «Non mi aspettavo questo, ma non riesco a credere che Luigi abbia

ucciso tuo zio, e sono molto addolorato per lui. Mi avvilisce. E ti sentiresti anche tu come me, Tom, se non avessi dei

pregiudizi verso quei due.»

«Non saprei,» disse Tom col viso che gli si faceva scuro mentre la memoria riandava ai calci ricevuti. «Certo

non sono molto ben disposto, visto il trattamento ricevuto dal brunetto, quella sera. Pregiudizi o no, Svitato, non mi

piacciono, e quando avranno quel che si meritano, non mi vedrai certo fra i dolenti.»

Tirò su un altro vetrino e disse:

«Toh, c'è il nome della vecchia Roxy! Che fai, vuoi decorare i palazzi reali anche con le ditate dei negri? A

giudicare dalla data, avevo sette mesi quando è stato fatto, e lei era la mia balia e la balia del suo negretto.

C'è una linea che attraversa l'impronta del pollice, come mai?» E Tom porse il vetrino a Wilson.

«È una cosa abbastanza comune,» disse Wilson annoiato. «La cicatrice di un taglio o di uno sgraffio, in

genere,» e prese con indifferenza il pezzetto di vetro e lo sollevò contro la lampada.

Di colpo, il sangue gli defluì dal viso, la mano cominciò a tremargli, e guardò quella superficie lucida che gli

stava davanti con lo sguardo vitreo di un cadavere.

«Santo cielo! Che ti succede, Wilson? Ti senti male?»

Tom corse a prendergli un bicchiere d'acqua, ma Wilson si ritrasse tremante e disse:

«No no, portalo via!» Ansimava e tentennava il capo con aria frastornata e smarrita, come chi sia stato

tramortito. Poi disse: «Starò meglio quando andrò a letto; oggi mi sono affaticato molto. E già da parecchi giorni che mi

sento stanco.»

«Allora ti lascio riposare. Buona notte, vecchio mio.» Ma mentre usciva Tom non seppe rinunciare a un'ultima

frecciata: «Non te la prendere, non si può vincere sempre; prima o poi ci riuscirai a fare impiccare qualcuno.»

Wilson borbottò fra sé:

«E non è una bugia la mia, se dico che mi dis piace dover cominciare da te, per quanto tu sia un miserabile

bastardo.»

Si rianimò con un bicchiere di whisky gelato e si rimise al lavoro. Non confrontò le nuove impronte lasciate

involontariamente da Tom, pochi minuti prima, sul vetrino di Roxy, con quelle rilevate sull'impugnatura del coltello,

giacché il suo occhio esperto non ne aveva bisogno, ma si dedicò a un'altra ricerca e di tanto in tanto borbottava: «Idiota

che sono stato! Prendere in considerazione soltanto una ragazza e mai mi è venuto in mente di pensare a un uomo in

abiti femminili.» Per prima cosa rintracciò la lastrina con le impronte di Tom quando aveva dodici anni, e la mise da

parte; poi tirò fuori le impronte di Tom quando era un piccino di sette mesi, e mise i due vetrini insieme a quello su cui,

inconsciamente, il giovane Driscoll aveva lasciato un nuovo «dato».

«Ora la serie è completa,» disse soddisfatto. E sedette a esaminare i vetrini con tutto comodo.

Ma la sua soddisfazione fu di breve durata. Guardò a lungo i tre vetrini e restò sbalordito. Alla fine li depose e.49

disse:

«Non ci capisco nulla. Maledizione! Quelle del piccino non corrispondono alle altre!»

Per mezz'ora passeggiò avanti e indietro, rompendosi il capo su quell'enigma, poi andò a cercare altri due

vetrini.

Si rimise a sedere e si scervellò per un bel pezzo anche su questi, sempre borbottando: «È inutile, non riesco a

capire. Non collimano. Eppure ci giurerei che i nomi e le date sono giusti, per cui, naturalmente, dovrebbero coincidere.

Non mi è capitato mai in vita mia di sbagliarmi a mettere le etichette. Qui c'è sotto un mistero.»

Adesso era proprio stanco, e il suo cervello cominciava ad annebbiarsi. Decise di dormire un po' tanto per

rinfrescarsi le idee: poi avrebbe visto che cosa si poteva cavare da quell'enigma. Dormì un'ora, un sonno turbato e per

nulla riposante, poi, a un tratto, emerse da quello stato di semicoscienza e si alzò a sedere sul letto: «Com'era quel

sogno?» si disse sforzandosi di ricordarlo. «Com'era quel sogno? Mi sembrava che svelasse l'enig...»

Con un balzo fu in mezzo alla stanza prima ancora di aver completato la frase. Accese la luce e corse a

verificare i suoi «dati». Lanciò una sola, rapida occhiata ed esclamò:

«È così! Santo cielo, che rivelazione! E per ventitré anni non c'è stato uno che l'abbia sospettato!»

XXI

Chi è inutile sulla terra, dovrebbe starci sotto a ispirare i cavoli.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

1° aprile: questo è il giorno che ci ricorda quello che siamo negli altri trecentosessantaquattro.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

Wilson si rivestì alla bell'e meglio e si mise a lavorare di lena. Adesso era completamente sveglio. Tutta la sua

stanchezza era stata spazzata via dalla grande decisiva scoperta che aveva fatto: si sentiva elettrizzato, pieno di energia e

di ottimismo. Fece delle riproduzioni accuratissime di un certo numero di «dati», poi li ingrandì da uno a dieci col

pantografo. Disegnò gli ingrandimenti su fogli di cartoncino bianco, riproducendo linea per linea il complesso intrico di

curve e arabeschi che costituivano il «disegno» di un «dato», e ricalcandolo con inchiostro nero in modo che risultasse

ben chiaro. A un occhio inesperto quei segni sottilissimi, lasciati da dita umane sui vetrini, apparivano pressoché

identici; ma ingranditi dieci volte, somigliavano alle nervature di un tronco d'albero segato a metà, orizzontalmente, e

anche l'occhio meno allenato poteva riconoscere con un solo sguardo e a metri di distanza che non ce n'erano due

uguali. Quando alla fine Wilson ebbe terminato il diff¦cile e tedioso lavoro, sistemò i risultati in ordine progressivo, in

modo da ottenere una serie completa; poi aggiunse alla serie diversi ingrandimenti pantografici che aveva fatto di

quando in quando negli anni passati.

La notte era trascorsa ormai, e il giorno avanzava. Il tempo di fare un po' di colazione, ed erano le nove:

l'udienza stava per iniziare. Dodici minuti dopo Wilson era al suo posto con i suoi «dati».

Tom Driscoll li sbirciò e, dando una gomitata all'amico che gli sedeva accanto, disse con una strizzatina

d'occhio: a Lo Svitato ha il bernoccolo per gli affari... Visto che non può vincere la causa, approfitta dell'occasione per

fare un po' di pubblicità gratis alle sue decorazioni per finestre.» Fu comunicato a Wilson che i suoi testimoni erano in

ritardo, e sarebbero arrivati di lì a poco, ma lui si alzò, e disse che probabilmente non avrebbe avuto bisogno della loro

testimonianza. (Un mormorio divertito corse per l'aula: «Una ritirata in piena regola! Abbandona il campo senza tirare

un colpo!») Wilson continuò: «Ho altre testimonianze, e migliori.» (Interesse e mormorio di sorpresa conditi da un

pizzico di disappunto.) «Se do l'impressione di voler cogliere la Corte alla sprovvista con queste nuove prove, dirò a

mia giustificazione che ne ho scoperto l'esistenza soltanto ieri notte, e da quel momento fino a mezz'ora fa non ho fatto

che esaminarle e classificarle. Tra poco le produrrò; prima però desidero dire alcune parole preliminari.

«Col beneplacito della Corte, mi richiamerò alla tesi principale dell'accusa, tesi ribadita nel modo più strenuo,

direi quasi più aggressivo e provocatorio: l'individuo la cui mano sinistra ha lasciato impronte insanguinate

sull'impugnatura del pugnale indiano, è colui che ha commesso l'omicidio.» Wilson fece una lunga pausa, per dare

maggior rilievo a quello che si accingeva a dire, poi aggiunse pacatamente:

«È una tesi che sottoscriviamo.»

La dichiarazione sortì l'effetto di una scarica elettrica. Nessuno se l'aspettava. Un mormorio di stupore si levò

da ogni parte e ci fu persino chi insinuò che, causa l'eccessivo lavoro, l'avvocato aveva perso il senno. Anche il giudice,

per quanto abituato ai trabocchetti legali e ai subdoli attacchi dei processi penali, non era certo che le proprie orecchie

non lo avessero ingannato, e chiese al Pubblico Ministero che cosa avesse detto Wilson. Il volto impassibile di Howard

non tradì la minima emozione, ma il suo atteggiamento e il suo contegno perdettero un po' dell'abituale sicumera.

Wilson riprese.

«Non solo la sottoscriviamo: la facciamo nostra. Ma accantonando per un attimo tale aspetto della questione,

procederemo ora a considerare altri punti di questa causa che ci proponiamo di stabilire a mezzo di prove. Della tesi in

sé riparleremo quando verrà il momento.»

Aveva risolto di tentare alcune congetture azzardate, nel trattare la propria teoria dell'origine e del movente del.50

delitto, congetture destinate a colmare alcune lacune, congetture che, qualora avessero colpito nel segno, sarebbero state

utili e che nel caso inverso non avrebbero fatto alcun danno.

«A mio avviso alcune circostanze del caso sottoposto al giudizio di questa Corte sembrano suggerire un

movente del tutto diverso da quello su cui ha insistito l'accusa. È mia convinzione che il movente non sia stata la

vendetta, ma il furto. Si è insistito sul fatto che la presenza degli accusati nella stanza fatale, subito dopo aver appreso

che uno di loro doveva sopprimere il giudice Driscoll o perdere la propria vita non appena le due parti si fossero

incontrate, sta chiaramente a significare che l'innato istinto di conservazione spinse i miei clienti a recarsi segretamente

in quel luogo per salvare la vita del conte Luigi eliminando l'avversario.

«Ma allora, perché rimanere lì una volta compiuto il delitto? La signora Pratt ebbe tutto il tempo - eppure non

aveva udito le grida di aiuto, visto che si era svegliata qualche attimo dopo - di correre in quella stanza, e lì trovò questi

due uomini ritti in piedi, che non facevano alcun tentativo per scappare. Se fossero stati colpevoli, avrebbero dovuto

precipitarsi fuori della casa e ne avrebbero avuto il tempo mentre lei accorreva nella stanza. Se il loro spirito di

conservazione era tanto forte da spingerli a uccidere quell'uomo inerme, dov'era andato a finire ora, che avrebbe dovuto

essere più che mai sveglio? C'è forse qualcuno, fra noi, che sarebbe rimasto? Non insultiamo a tal punto la nostra

intelligenza.

«Si è dato enorme rilievo al fatto che l'imputato avesse offerto una forte ricompensa per il pugnale col quale è

stato commesso il delitto; che nessun ladro è venuto allo scoperto per reclamare quella straordinaria ricompensa; che

quest'ultima circostanza proverebbe in modo inconfutabile che la denuncia del furto del pugnale era una finta e un

inganno; che la connessione di tali particolari alle memorabili e apparentemente profetiche parole del defunto riguardo a

quel pugnale, e la scoperta finale di quella stessa arma nella stanza fatale (dove presso il cadavere furono trovate solo

due persone, il proprietario del coltello e suo fratello) formano una catena indistruttibile di prove a carico dei due

sventurati forestieri.

«Fra poco chiederò di prestare giuramento, in qualità di testimone, e proverò che anche per il ladro era stata

offerta una forte ricompensa; che l'offerta è stata fatta in segreto, e non resa pubblica; che di ciò venne fatta incauta

menzione - o per lo meno tacita ammissione - in circostanze che sembravano prive di rischi ma che forse non lo erano.

Il ladro poteva essere presente di persona.» (Tom Driscoll, che aveva fissato per tutto il tempo l'oratore, a questo punto

abbassò gli occhi.) «In questo caso si sarebbe tenuto il pugnale, non osando metterlo in vendita né impegnarlo.» (Molti,

fra il pubblico, annuirono col capo, come per dire che il colpo era azzeccato.) «Dimostrerò ai giurati che c'era una

persona nella stanza del giudice Driscoll parecchi minuti prima che gli accusati entrassero.» (Questa dichiarazione fece

scalpore; quei pochi che ancora dormicchiavano si drizzarono di scatto, pronti ad ascoltare il seguito.) «Se sarà

giudicato necessario, dimostrerò, servendomi della testimonianza delle signorine Clarkson, che esse incontrarono una

persona velata - apparentemente una donna - che usciva dal cancello posteriore pochi minuti dopo che s'era udito il

grido di aiuto. Ma questa persona non era una donna: era un uomo vestito con abiti femminili.» (Gran fermento

nell'aula. Wilson teneva gli occhi puntati su Tom per vedere l'effetto prodotto dalla sua audace congettura. Restò

soddisfatto del risultato e disse fra sé: «Bene, il colpo è andato a segno.»)

«L'obiettivo di quella persona, in quella casa, era il furto, non l'omicidio. È vero che la cassaforte non fu

aperta, ma sul tavolo c'era una normale cassetta di metallo contenente tremila dollari. È lecito supporre che il ladro fosse

nascosto in casa; che sapesse dell'esistenza di questa cassettina e dell'abitudine del suo proprietario di controllare il

denaro e sistemare i conti la sera (ammesso che avesse quell'abitudine, cosa che, naturalmente, non posso asserire), che

abbia tentato di prendere la cassetta mentre il proprietario dormiva, ma abbia fatto rumore e l'abbia svegliato; che, una

volta sorpreso, sia stato costretto a usare il pugnale per evitare la cattura; che, infine, sia fuggito senza il bottino,

sentendo sopraggiungere gente.

«Questa la mia ricostruzione dei fatti. Passerò ora alle prove che ne dimostrano la fondatezza.» Wilson tirò

fuori un certo numero di lastrine. Quando il pubblico riconobbe quel familiare memento dei puerili e futili giochetti di

cui lo Svitato si dilettava in passato, i volti, prima tesi e solenni, si rilassarono, e in tutta l'aula scoppiarono fragorose e

irrefrenabili risate di sollievo. Anche Tom si riprese e si unì all'ilarità generale, ma Wilson, apparentemente, non ne fu

turbato. Sistemò le «schede» davanti a sé, sulla tavola, e disse:

«Ora, col permesso della Corte, illustrerò brevemente alcune delle prove che mi accingo a produrre; poi

chiederò l'autorizzazione a convalidarle sotto giuramento sul banco dei testimoni. Ogni essere umano porta su di sé,

dalla nascita alla tomba, certi segni caratteristici che rimangono immutati, e per mezzo dei quali può essere sempre

identificato - identificato senza la minima ombra di dubbio. Questi segni sono la sua firma, il suo autografo fisiologico,

tanto per intenderci, e questo autografo non può essere contraffatto né nascosto né alterato, né può diventare illeggibile

per il logorio del tempo e i suoi mutamenti. Questa "firma" non è la sua faccia (l'età può alterarla fino a renderla

irriconoscibile); non sono i suoi capelli (perché possono cadere); non è la sua statura (perché altri hanno la stessa

statura); non è il suo aspetto (perché altri possono averne uno identico); no, questa "firma" è unica, esclusiva: non

esistono, in tutta l'immensa popolazione del globo, duplicati di sorta!» (Nuovi segni di interesse tra il pubblico.)

«Questo autografo consiste nelle delicate linee o solchi con cui la natura segna l'interno delle mani e la pianta

dei piedi. Se vi guardate i polpastrelli delle dita - parlo a coloro che hanno una vista buona - osserverete che queste

delicatissime linee curve sono molto, molto vicine, come quelle che, nelle mappe, segnano i confini degli oceani, e che

formano alcune figure chiaramente identificabili, come archi, circoli, volute, spirali eccetera, e che tali figure

differiscono da dito a dito.» (Ognuno, in aula, aveva alzato una mano e, volgendola verso la luce, osservava

minuziosamente con la testa piegata da un lato, i polpastrelli delle dita. Vi furono sommesse esclamazioni: «To', è.51

proprio vero! non me n'ero mai accorto prima!») «Le linee della mano destra non sono uguali a quelle della sinistra.»

(Altre esclamazioni: «To', anche questo è vero!») «Prese dito per dito, le vostre linee differiscono da quelle del vostro

vicino.» (Confronti in tutta l'aula: persino il giudice e i giurati erano assorti in questa curiosa occupazione.) «Le linee

della mano destra di un gemello non sono uguali a quelle della mano sinistra. Le linee della mano di un gemello non

sono mai identiche a quelle dell'altro: i signori giurati osserveranno che le linee dei polpastrelli degli imputati seguono

questo schema.» (Iniziò subito l'esame delle mani dei gemelli.) «Avrete sentito dire spesso di alcuni gemelli che sono

esattamente uguali; gemelli che, se vestiti allo stesso modo, neppure i genitori riescono a distinguere. E tuttavia non è

mai venuto al mondo un gemello che non portasse su di sé, dalla nascita alla morte, un infallibile segno di

identificazione: questo misterioso e meraviglioso autografo naturale. Per cui nessun gemello che impersoni l'altro potrà

mai ingannarci, una volta che sappiamo questo.»

Wilson s'interruppe e rimase in silenzio. Quando un oratore fa questo, si comporta così, ogni disattenzione

sparisce d'incanto. Il silenzio preannunzia che il meglio deve ancora venire. Palme e polpastrelli si abbassaro no, corpi

rilassati si raddrizzarono, e tutte le teste si levarono, tutti gli occhi s'incollarono sul volto di Wilson. Lui attese ancora

uno, due, tre minuti, per lasciare che la pausa sortisse tutto il suo magico effetto. Poi, quando nel gran silenzio dell'aula

riuscì a udire il ticchettio del pendolo appeso al muro, allungò la mano e, preso dalla parte della lama il pugnale indiano,

lo tenne sollevato in alto, in modo che tutti potessero vedere quella sinistra macchia sull'impugnatura d'avorio; allora

con voce piana, assolutamente neutra, disse:

«Su questa impugnatura c'è l'autografo dell'assassino, scritto col sangue di quel vecchio inerme e innocuo che

vi amava e che voi tutti amavate. C'è un solo uomo in tutto il mondo la cui mano può riprodurre questo segno scarlatto.»

Fece una pausa e alzò gli occhi alla pendola che oscillava avanti e indietro. «E piaccia a Dio che prima che questo

orologio suoni mezzogiorno possiamo darvi quell'uomo, in quest'aula!»

Storditi, fuori di sé, inconsapevoli di ciò che stavano facendo, i presenti scattarono in piedi come se

aspettassero di veder comparire sulla porta l'assassino, mentre nell'aula si levava un brusio di esclamazioni soffocate:

«Ordine nell'aula! Seduti!» L'ordine dello sceriffo venne obbedito, e di nuovo regnò il silenzio. Wilson lanciò

un'occhiata a Tom e si disse: «Sta lanciando il suo sos, adesso; anche quelli che lo disprezzano hanno compassione di

lui; pensano che sia una dura prova per un giovane che ha perso il suo benefattore in modo così crudele... e hanno

ragione.» Riprese a parlare:

«Per più di vent'anni ho cercato di rallegrare il mio ozio forzato collezionando, in questa città, queste singolari

"firme fisiche". A casa ne ho a centinaia. Ognuna è contraddistinta da nome e data. L'etichetta la metto sempre

nell'istante stesso in cui prendo le impronte, senza far passare un giorno, e neppure un'ora. Quando salirò sul banco dei

testimoni, ripeterò sotto giuramento tutto ciò che vi dico ora. Ho le impronte digitali dei giudici, dello sceriffo, e di

ciascun membro della giuria. Forse non c'è una sola persona, bianca o negra che sia, presente in quest'aula, di cui io non

possa fornire le impronte, e non c'è nessuno, per quanto camuffato, che io non riesca a individuare in mezzo a una folla

di suoi simili, e a identificare infallibilmente, per mezzo delle sue mani. E se tanto lui che io dovessimo vivere

cent'anni, anche allora ci riuscirei!» (L'interesse dei presenti si faceva sempre più intenso.) «Ho esaminato così a lungo

alcune di queste impronte che le conosco come il cassiere di una banca conosce la firma del suo più vecchio cliente.

Mentre io ora volto le spalle, prego alcuni tra i presenti di passarsi le dita fra i capelli e di premerle contro uno dei vetri

della finestra vicino ai giurati, e chiedo che anche agli imputati sia permesso di imprimere le loro impronte vicino alle

altre. Chiedo inoltre che questi stessi volenterosi, e anche altri, stampino le loro impronte su un altro vetro, e di nuovo

che anche gli accusati vi pongano le proprie, ma non nello stesso ordine e rapporto rispetto alle altre. Infatti, dato che in

un caso su un milione può succedere per pura combinazione, di azzeccare le impronte giuste, desidero essere messo due

volte alla prova.»

Voltò la schiena, e i due vetri si coprirono rapidamente di chiazze ovali solcate da linee sottilissime, visibili

soltanto contro uno sfondo scuro: il fogliame di un albero all'esterno, per esempio. Quando lo chiamarono, Wilson si

avvicinò alla finestra, esaminò i vetri e disse:

«Questa è la mano destra del conte Luigi; questa qui, tre impronte più giù, è la sua sinistra. Ecco la destra del

conte Angelo, e quaggiù la sua sinistra. E adesso l'altro vetro: qui e qui, quelle di Luigi, e qui e qui quelle di suo

fratello.» Si voltò: «È giusto?»

Gli rispose un assordante scroscio di applausi. Il presidente disse:

«È una cosa che ha del miracoloso!»

Wilson si volse di nuovo verso la finestra e col dito indicò:

«Questa è l'impronta del giudice Robinson,» (applausi). «Questa, dell'agente Blake,» (applausi). «Questa, di

John Mason, membro della giuria,» (applausi). «Questa dello sceriffo,» (applausi). «Le altre non le conosco, ma a casa

le ho tutte ben catalogate, e potrei identificarle tutte per mezzo del mio schedario.»

Ritornò al suo posto tra un uragano di applausi. Lo sceriffo ristabilì l'ordine e intimò ai presenti di mettersi

seduti; tutti infatti erano in piedi e, naturalmente, si spintonavano per vedere meglio. Fino a quel momento la Corte, i

giurati e lo sceriffo erano stati troppo presi dalla spettacolosa prestazione di Wilson per badare al pubblico.

«Dunque,» disse Wilson, «ho qui gli autografi naturali di due bambini ingranditi col pantografo dieci volte

rispetto agli originali. Chiunque abbia una vista normale riconoscerà alla prima occhiata i segni che le differenziano.

Chiameremo i bambini A e B. Ecco le impronte di A, prese quando aveva cinque mesi. Eccole di nuovo, quando ne

aveva sette.» (Tom sussultò.) «Come vedete sono identiche. Ed ecco quelle di B a cinque mesi e a sette. Anche queste

corrispondono perfettamente, anche se, come potrete osservare, le linee sono diverse da quelle delle dita di A. Ma ad.52

esse ritorneremo fra poco. Per il momento le volteremo a faccia in giù.»

«E qui, ingranditi da uno a dieci, sono invece gli autografi naturali delle due persone che si trovano davanti a

voi, accusate dell'uccisione del giudice Driscoll. Le ho ingrandite io stesso la notte scorsa, e sono pronto a giurarlo sul

banco dei testimoni. Ora prego i giurati di confrontarle con le impronte che gli imputati hanno lasciato sui vetri e di

riferire alla corte se sono le stesse.»

Porse a un membro della giuria una potente lente d'ingrandimento.

Uno dopo l'altro i giurati presero il cartoncino e la lente e misero a confronto le impronte. Poi il capo della

giuria disse al giudice:

«Vostro Onore, siamo tutti d'accordo che sono identiche.»

Wilson gli disse:

«Per favore, copra il cartoncino e prenda quest'altro, e dopo averlo esaminato scrupolosamente con la lente, lo

metta a confronto con le impronte dell'impugnatura del pugnale e riferisca poi alla Corte le sue deduzioni.»

Di nuovo i giurati eseguirono un esame minuzioso e di nuovo riferirono:

«Le troviamo perfettamente identiche, Vostro Onore.»

Wilson si volse al Pubblico Ministero: c'era una chiara nota di monito nella sua voce, quando disse:

«Con licenza della Corte, il Pubblico Ministero ha dichiarato, strenuamente e con insistenza, che le impronte

insanguinate sul manico del pugnale sono le stesse lasciate dall'assassino del giudice Driscoll. Ci avete udito

sottoscrivere questa tesi e farla nostra.» Si volse ai giurati: «Confrontate le impronte digitali degli imputati con quelle

lasciate dall'assassino e riferite.»

Il confronto ebbe inizio. Via via che esso procedeva, cessò ogni movimento, ogni suono. Nell'aula calò un

silenzio profondo, greve di aspettativa; ma quando alla fine fu pronunciato il responso: «Non si rassomigliano

neppure,» scoppiò un altro scrosciante applauso e il pubblico scattò in piedi, sicché fu nuovamente necessario ristabilire

l'ordine. Tom intanto cambiava posizione ogni due minuti, ma senza trovare né requie né sollievo. Quando il pubblico

fu di nuovo attento e silenzioso, Wilson disse in tono solenne, additando i gemelli:

«Questi uomini sono innocenti. Non ho altro da dire in loro difesa.» (Altro tentativo di applauso, subito

soffocato.) «Ora procederemo all'identificazione del colpevole.» (Tom aveva gli occhi fuori dell'orbita. Sì, pensavano

tutti, era un giorno crudele per il povero giovane in lutto.) «Torniamo ora alle impronte di A e B bambini. Prego i

giurati di prendere questi facsimili ingranditi al pantografo delle impronte di A, prese a cinque e sette mesi.

Coincidono?»

Il capo dei giurati rispose: «Perfettamente.»

«Ed ora esaminate queste impronte ingrandite, prese a otto mesi, anch'esse contrassegnate A. Coincidono con

le altre due?»

La risposta inattesa fu:

«No... Sono molto diverse.»

«Avete perfettamente ragione. Ora prendete questi due ingrandimenti dell'autografo di B, presi rispettivamente

a cinque e sette mesi. Coincidono?»

«Sì, perfettamente.»

«Prendete questo terzo ingrandimento contrassegnato B, otto mesi. Coincidono con le altre due impronte di

B?»

«Assolutamente no

«E sapreste spiegarvi la ragione di questa strana discordanza? Ve la dirò io. Per uno scopo a noi ignoto, ma

probabilmente egoistico, qualcuno ha scambiato nella culla quei due bambini.»

Naturalmente lo scalpore fu grande. Roxana era sbalordita della stupefacente scoperta, ma non turbata. Un

conto era indovinare che c'era stato uno scambio, un altro indovinare chi lo aveva effettuato. Wilson lo Svitato poteva

fare cose straordinarie, certo, ma non l'impossibile. Fuori pericolo? Sì, lei era assolutamente fuori pericolo. Sorrise fra

sé.

«Fra i sette e gli otto mesi quei due bambini furono scambiati nelle culle.» Wilson fece una delle sue pause a

effetto, e aggiunse: «E la persona che li ha scambiati è in quest'aula!»

Roxy si sentì gelare il sangue. L'aula fu percorsa da un fremito: tutti si alzarono a metà per veder meglio chi

aveva effettuato lo scambio. Tom si sentiva come paralizzato; gli sembrava che la vita lentamente lo abbandonasse.

Wilson riprese:

«A fu messo nella culla di B, e lasciato nella nursery; B fu trasferito in cucina, e diventò un negro e uno

schiavo.» (Sensazione, confuse esclamazioni d'ira.) «Ma nel giro d'un quarto d'ora sarà qui fra voi, bianco e libero.»

(Scroscio d'applausi, repressi energicamente dalla Corte.) «Dai sette mesi di vita A è stato un usurpatore e sull'etichetta

delle lastrine porta il nome di B. Ecco l'ingrandimento delle sue impronte all'età di dodici anni. Confrontatele con le

impronte dell'assassino sul manico del pugnale. Coincidono?»

Il capo della giuria rispose:

«Fino nei più piccoli particolari

Wilson disse solennemente: «L'assassino del vostro e mio amico, York Driscoll, di quell'uomo generoso e

gentile, siede in mezzo a voi. Valet-de-Chambre, negro e schiavo - erroneamente chiamato Thomas Becket Driscoll -

imprimi sulla finestra le impronte che ti manderanno sulla forca!»

Tom volse il viso cereo, implorante, verso l'oratore, cercò invano di schiudere le labbra sbiancate per dir.53

qualcosa, poi si afflosciò al suolo. Wilson ruppe il silenzio attonito che regnava nell'aula:

«Non ce n'è bisogno. Ha confessato.»

Roxy si gettò in ginocchio, si coprì il viso con le mani, e in mezzo ai singhiozzi le uscirono queste parole:

«Iddio abbia pietà di me, povera misera peccatrice che sono!»

L'orologio suonò le dodici.

La Corte si alzò; il nuovo prigioniero, ammanettato, fu portato via.

EPILOGO

Accade spesso che chi non sa dire bugie se ne ritenga il miglior giudice.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

12 ottobre - Scoperta dell'America. Certo, è stato bellissimo trovare l'America; ma perderla sarebbe stato ancora più

bello.

Dal Calendario di Wilson lo Svitato

La città rimase in piedi tutta la notte a discutere gli strabilianti avvenimenti della giornata, e tutti facevano

scommesse sulla data d'inizio del processo di Tom. Frotte di cittadini andarono alla casa di Wilson, intonarono cori, gli

chiesero un discorso, e si ridussero senza voce a furia di acclamare ogni frase che gli usciva dalle labbra, perché ora

tutto quello che Wilson diceva era oro colato. La sua lunga lotta contro la sorte avversa e i pregiudizi era finita; ormai -

e per sempre - era un uomo affermato.

E mentre queste bande di fanatici urlanti gli marciavano davanti, c'era sempre qualcuno che, preso dai rimorsi,

saltava su a dire:

«E questo è l'uomo che gente come noi ha chiamato Svitato per venti anni. Amici, ora si è dimesso da quella

carica.»

«Sì, ma non è rimasta vacante: noi siamo stati eletti a ricoprirla.»

I gemelli, completamente riabilitati, erano ormai eroi da romanzo. Ma, stanchi delle avventure del West,

tornarono immediatamente in Europa.

Roxy aveva il cuore spezzato. Il giovane al quale aveva inflitto ventitré anni di schiavitù continuò a passarle,

come già il falso erede, una pensione di trentacinque dollari al mese, ma le ferite di lei erano troppo profonde perché il

denaro potesse rimarginarle. Sparì la vivacità dal suo sguardo, e con essa il suo portamento marziale, e la sua risata.

Solo in chiesa e nelle funzioni religiose trovava un po' di sollievo.

Il vero erede si trovò improvvisamente ricco e libero, ma anche in una posizione estremamente imbarazzante.

Non sapeva né leggere né scrivere, e parlava solo il dialetto del quartiere negro. Il suo incedere, i gesti, il portamento, la

risata erano volgari e rozzi; le sue maniere quelle di uno schiavo. Né il denaro né i begli abiti potevano ovviare a quei

difetti, né nasconderli: se mai li rendevano ancora più appariscenti e patetici. Il povero diavolo non poteva affrontare il

terrore che gli incutevano i salotti dei bianchi, e si sentiva a suo agio e in pace solo in cucina. Il banco di famiglia, in

chiesa, era un tormento; eppure ormai non poteva più rifugiarsi nella a galleria dei negri»: quella gli era preclusa per

sempre. Ma non possiamo seguire oltre il suo bizzarro destino. Sarebbe una storia troppo lunga.

Il falso erede confessò e fu condannato al carcere a vita. Ma a questo punto sorse una complicazione. Quando

morì Percy Driscoll, la situazione del suo patrimonio era così precaria da essere appena sufficiente a saldare il sessanta

per cento dei debiti, e tanti furono liquidati. Ma adesso saltarono fuori i creditori, e si lamentarono di aver subito un

torto e una perdita perché, per un errore di cui loro non avevano alcuna colpa, a quell'epoca il falso erede non era stato

inventariato col resto dei beni. A ragione sostenevano che per legge Tom era di loro proprietà e che lo era stato per otto

anni: ci avevano già rimesso abbastanza per essere stati privati dei suoi servizi durante quel lungo periodo e non era

giusto pretendere che continuassero a rimetterci. Se glielo avessero consegnato fin dall'inizio, lo avrebbero venduto e lui

non avrebbe potuto uccidere il giudice Driscoll; in realtà non era stato lui a commettere il delitto, la colpa andava

ricercata nell'inventario sbagliato. Tutti si resero conto che c'era del giusto in quello che dicevano. Tutti ammisero che

se a Tom» fosse stato bianco e libero sarebbe stato indiscutibilmente giusto punirlo (nessuno infatti ci avrebbe rimesso);

ma rinchiudere a vita uno schiavo prezioso, be', quella era un'altra faccenda.

Quando il governatore venne a conoscenza del caso, graziò immediatamente Tom, e i creditori lo vendettero a

valle del fiume.